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Castigat ridendo mores

Ecco come la Germania potrebbe aver truccato i conti

I tedeschi non conteggerebbero le spese previdenziali e i debiti della Kreditanstalt für Wiederaufbau, un istituto simile alla nostra Cassa Depositi e Prestiti. Se così fosse il debito reale sarebbe il triplo di quello dichiarato

E se la Germania fosse il Paese più indebitato, anziché quello più virtuoso della Ue, come tutti abbiamo sempre creduto?
Potrebbe sembrare una sparata da titolone, ma stando a quanto rivelato da due articoli pubblicati sul Corriere della Sera e su Libero, non solo il debito complessivo della Germania sarebbe il più alto d'Europa (questo già era noto), ma potrebbe essere molto più elevato di quanto dichiarato, se non fosse per qualche trucchetto utilizzato dai governi teutonici dopo l'unione tra Repubblica federale ed ex Ddr. Di conseguenza, anche l'incidenza percentuale del debito sulla ricchezza pubblico-privata (Pil) sarebbe da bollino rosso. Addirittura peggiore del rapporto debito-pil della Grecia. Per capire meglio, leggiamo quanto riportato nei due articoli sopracitati. Il primo, di Massimo Mucchetti, è stato pubblicato sul Corriere della Sera il 7 settembre scorso. Di seguito ne riportiamo un estratto.
"Angela Merkel paragona l'Italia alla Grecia. Per quanto si possa dir male del nostro governo, il cancelliere sbaglia.
Roma non ha mai mentito sui suoi conti pubblici come ha fatto Atene. E poi la Germania dovrebbe comunque rispettare un partner commerciale dove esporta più che in Cina. E infine, quanto a debito pubblico, il governo di Berlino si avvale di antiche furbizie.
Che, alla vigilia della sentenza della Corte costituzionale di Karlsruhe sui salvataggi già fatti e in vista della seduta del Bundestag di fine mese sul piano salva Stati, vale la pena di ricordare. Da 16 anni la Germania non include nel suo debito pubblico le passività del Kreditanstalt für Wiederaufbau, meglio noto come KfW, posseduto all'80% dallo Stato e al 20% dai Länder, altri soggetti pubblici. Si tratta di 428 miliardi di euro interamente garantiti dalla Repubblica federale.
La KfW fa mutui a enti locali e piccole e medie imprese. Detiene partecipazioni cruciali in colossi come Deutsche Post e Deutsche Telekom. È vigilata dai ministeri delle Finanze e dell'Industria, non dalla Bundesbank. Grazie al legame di ferro con lo Stato, la KfW conquista la medaglia d'oro nella classifica mondiale dell'affidabilità, stilata da Global Finance, e il massimo rating da parte di Moody's, Standard & Poor's e Fitch, lo stesso della Repubblica federale. Le sue obbligazioni sono dunque uguali ai bund. Ma a differenza dei bund, magicamente non entrano nel conto del debito pubblico.
Se vi entrassero come la logica del Trattato di Maastricht vorrebbe, il debito pubblico tedesco salirebbe da 2.076 miliardi a 2.504 e la sua incidenza sul prodotto interno lordo 2011 balzerebbe dall'80,7% al 97,4%. Ancora un piccolo passo, magari per salvare qualche banca tedesca ingolosita dai titoli di Stato mediterranei, e potremmo dire: benvenuta Germania tra noi del club degli over 100%! La magia, che nasconde il 17% del debito pubblico reale tedesco, si chiama Esa95. È il manuale contabile che esclude dal debito pubblico, a integrazione dei criteri di Maastricht, le società pubbliche che si finanziano con pubbliche garanzie ma che coprono il 50,1% dei propri costi con ricavi di mercato e non con versamenti pubblici, tasse e contributi. La serietà di un tale principio è paragonabile alla considerazione del rischio di controparte negli Ias-Ifrs, i principi contabili che hanno favorito il crac Lehman. Se per ipotesi KfW avesse problemi, chi pagherebbe? Lo Stato. E senza nemmeno l'ipocrisia degli Usa che qualificavano le loro Fanny Mae, Freddie Mac e Ginnie Mae come imprese sponsorizzate dal governo per far capire che, alla bisogna, il Tesoro avrebbe coperto, ma senza dirle statali per non sembrare statalisti.
Ora l'Italia ha la Cassa depositi e prestiti, 70% Tesoro, 30% fondazioni bancarie, soggetti privati. La Cdp emette anno dopo anno obbligazioni che godono della garanzia statale e sono collocate dalle Poste sotto forma di buoni e di libretti. Mal contati sono 300 miliardi, due terzi reinvestiti in titoli di Stato e un terzo in mutui agli enti locali. La Cdp emette anche obbligazioni non garantite per una ventina di miliardi destinate alle iniziative per le imprese e detiene partecipazioni rilevanti. Ma il suo debito è per tutta la parte coperta da garanzia pubblica conteggiato nel debito pubblico. In un mondo serio delle due l'una: o la Germania ricalcola il suo debito come si deve perché l'Eurozona sotto attacco non accetta più furbizie da parte di nessuno, ancorché legalizzate a forza, oppure l'Italia deconsolida dal suo debito pubblico quei cento miliardi o giù di lì che la Cdp usa per gli enti locali, dato che questi la scelgono su un mercato bancario liberalizzato".
Il ragionamento di Mucchetti sembra proprio non fare una grinza e in effetti fa adombrare il sospetto che i conti ufficiali della Germania siano stati leggermente taroccati. Ma a gettare un'ombra inquietante sulla situazione del bilancio della Repubblica federale (e sulla sua credibilità) è un'altra notizia, questa più recente. Secondo quanto riportato da Libero di oggi (21 dicembre), il colpo di spugna al debito pubblico tedesco sarebbe molto più vistoso, tanto da ridurlo addirittura del 70 per cento!
Tutto è nato da una lettera inviata da un lettore del Corriere della Sera al quotidiano di via Solferino, e pubblicata alcuni giorni fa. Nella lettera si citava un articolo apparso su una rivista economica tedesca e in cui veniva evidenziato il fatto che i governi teutonici non conteggerebbero, nel computo del debito di bilancio, una grossa parte delle spese previdenziali, che come sappiamo hanno un peso notevole in relazione alla spesa pubblica.
Ecco un estratto dell'editoriale di Maurizio Belpietro (Libero) sulla vicenda. "Più furbetti di lei in giro non ci sono: Angela Merkel vuol far pagare i debiti della Germania all'Italia e al resto dell'Europa. Berlino trucca i conti e solo così può dare lezioni ai paesi in difficoltà. Se i tedeschi non imboscassero i vitalizi previdenziali e gli assegni per le persone disabili, avrebbero infatti un debito di 7mila miliardi di euro, più del triplo di quello dichiarato [...] Il rapporto tra debito e Pil, invece di essere così virtuoso (85%), schizzerebbe ad un astronomico 197 per cento. Per intendersi, 77 punti in più di quello italiano e superiore anche a quello della Grecia fallita. Se poi si bada al fabbisogno di consolidamento, l'Italia è al 2,4, meglio di Berlino.
Che l'Italia sia il socio più rispettabile di Eurolandia nella graduatoria della "sostenibilità del debito pubblico" lo ha affermato, a sorpresa, la Fondazione tedesca Marktwirtschaft (economia di mercato), che riunisce personalità del riformismo liberale tedesco. La giuria ha valutato la "rispettabilità"nazionale distinguendo tra debito pubblico esplicito e implicito. L'Italia viene premiata perché può vantare il più encomiabile "divario di sostenibilità" tra le due forme del debito, ottenendo così un "fabbisogno di consolidamento", come detto, del 2,4 per cento. "Solamente confrontando il debito esplicito delle pubbliche amministrazioni centrali e periferiche con quello implicito, occulto, del sistema pensionistico, assistenziale e sanitario si può fare un bilancio trasparente e sincero degli oneri di un Paese", ha spiegato Bernd Raffelhüschen, docente di economia all'università di Friburgo e promotore dell'iniziativa di Marktwirtschaft. Il basso indebitamento implicito e l’avanzo primario di bilancio, fa notare il professore, rispecchiano i risultati ottenuti con le prime correzioni del sistema pensionistico e sanitario varate negli ultimi anni".
Tempo fa l'Attaccabrighe dimostrò come anche il modello energetico tedesco fosse una mezza bufala, alimentata soprattutto dai giornali italiani. Non avremo esagerato, forse, nell'enfatizzare la virtù di questi crucchi? In ogni caso, queste rivelazioni sul debito della Germania cambiano le carte in tavola. O almeno, in un mondo normale, così dovrebbe essere.

500 miliardi nei paradisi fiscali: quando andiamo a prenderli?

Almeno 180 si troverebbero nella sola Svizzera, con la quale Germania e Inghilterra hanno stretto un accordo. E noi? Tagliamo le pensioni e facciamo finta di nulla con chi non ha neppure utilizzato lo scudo?

L'altra faccia della rivolta fiscale si chiama "evasione scandalosa". Se lo Stato diventa sempre più vessatorio (soprattutto nei confronti dei cittadini onesti), facendo maturare quella percezione di intollerabile ingiustizia che nel precedente articolo ha indotto l'Attaccabrighe a proporre addirittura una rivolta fiscale, non è dovuto solo al fatto che la spesa pubblica improduttiva è troppo alta. Esiste anche il problema dei troppi connazionali farabutti che continuano a farla franca a nostre spese.
A tal proposito, non sarà il caso di prendere in considerazione l'idea di chiedere una rogatoria internazionale ad alcuni dei più grossi paradisi fiscali sparsi sul globo, e andare finalmente a pizzicare le montagne di denaro che molti nostri compatrioti vi nascondono? No, perché se dobbiamo tagliare le pensioni alle vecchiette o pagare la benzina come oro colato, e poi vedere gente con il villone andare oltrefrontiera per nascondere i propri capitali nei caveau elvetici, vuol dire che alle porcherie non c'è proprio limite. E confermerebbe il fatto che l'appello alla rivolta è più che giustificato.
Anche perché - particolare non trascurabile - a coloro che hanno frodato lo Stato nascondendo soldi e patrimoni nei 63 paradisi fiscali "censiti" dall'Ocse (clicca sulla cartina a lato) è stata data l'opportunità di mettersi in regola, con tanto di garanzia di anonimato. Quello che è stato chiamato "scudo fiscale", in realtà, è un condono bello e buono, dal momento che si potevano rimpatriare attività finanziarie e patrimoniali a fronte del solo pagamento di una somma del 5 per cento a titolo di imposta e sanzioni, mentre in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, tanto per intenderci, chi ha voluto regolarizzare i capitali esportati ha dovuto pagare in toto le imposte evase negli anni precedenti.
Tutto ciò, ovviamente, si aggiunge al fatto che riportare i soldi in Italia significava, per gli anonimi evasori, evitare possibili condanne fino a sei anni di carcere, per vari reati tributari e non solo. Ebbene, sapete quanti soldi sono rientrati? 85 miliardi di euro, che all'erario hanno fruttato circa 4 miliardi di entrate immediate. Ma sapete a quanto ammontano i capitali italiani nascosti nei paradisi fiscali del mondo? Secondo stime per ovvi motivi approssimative, sarebbero circa 500 miliardi, di cui non meno di 180 nella sola Svizzera. Si badi bene al fatto che si tratta solo di stime, visto che secondo alcuni esperti potrebbero essere anche il doppio, in particolare quelli portati in Svizzera, nelle cui banche potrebbero esserci addirittura 300 miliardi di euro italiani.
D'altra parte è risaputo in tutta Europa (e in particolare lo sanno i nostri vicini confederati) che la Svizzera la manteniamo noi. Tremonti ci aveva provato a fare il duro, arrivando addirittira a minacciare la richiesta di una rogatoria, ma ha dovuto desistere in seguito a pressioni ricevute da più parti, soprattutto dalla Lega.
Figuriamoci, i nostri politici sono di una pavidità penosa. Che tuttavia faranno bene a vincere (tecnici e non), perché il popolo bue è incazzato come non mai e questo per loro non prelude a nulla di buono. L'iniziativa di Germania e Gran Bretagna, oltretutto, potrebbe metterli all'angolo.
Inglesi e Tedeschi, infatti, hanno stretto con la Svizzera un accordo che prevede la creazione di una nuova imposta alla fonte e anonima - più articolata rispetto all'attuale euroritenuta in vigore per tutti i cittadini Ue - per i cittadini tedeschi e inglesi che hanno capitali non dichiarati in Svizzera. Questa imposta permetterebbe di sanare le situazioni attuali di evasione, che d'ora in poi saranno soggette ad imposizione fiscale, seppur mantenendo le norme elvetiche sul segreto bancario.
Secondo alcune indescrezioni anche l'Italia sarebbe pronta ad avviare trattative in questo senso con i vicini confederati. Considerando una media di 180 miliardi di redditi parcheggiati oltre confine nel corso degli anni, e applicando un'aliquota Irpef media del 33 per cento, l'Agenzia delle Entrate incasserebbe circa 60 miliardi. Altro che Ici. E comunque, semmai questa ipotesi si concretizzasse, è necessario accelerare i tempi pachidermici della politica, del tutto imparagonabili a quelli dei furbetti di casa nostra. Il via vai dei nostri connazionali oltrefrontiera, infatti, è cominciato da parecchi mesi. E una volta trasferiti dal conto bancario alle cassette di sicurezza, quei soldi non li prende più neanche Lupin. 
      

Ci vorrebbe una rivolta fiscale

Gli esempi di resistenza fiscale nella storia sono tanti. E anche gli Italiani, oggi, qualcosa potrebbero fare: dall'Ici ai carburanti, dal 5 per mille alle lotterie, all'oppressione fiscale si può reagire anche senza violare la legge

Non ho nessuna intenzione di tediarvi con un nuovo pistolotto contro le tasse. Quello che pensa l'Attaccabrighe sulla pressione fiscale è stato spiegato in numerosi articoli, in particolare in uno pubblicato tre mesi fa (per chi avesse voglia di darci una sguardo, eccolo qua (http://lattaccabrighe.blogspot.com/2011/09/ridurre-al-minimo-cio-che-e-pubblico-o.html). Ma la manovra proposta dal governo Monti ha fatto riemergere un dato drammatico: dal 1992, l'aumento della pressione fiscale non conosce limiti. In diverse occasioni abbiamo pensato che la misura fosse colma, che non si potesse andare oltre, un po' come il record dei 100 metri. E invece "zac": 9 e 79, arriva il nuovo primato.
Vado giù piatto. Dobbiamo continuare a farci spennare come polli all'infinito? Vogliamo veramente (e non solo iperbolicamente) fare la fine di grandi civiltà del passato, come l'Impero Romano, ed essere sepolti dai costi che gli apparati statali sostengono per mantenere se stessi? Non è forse il caso di dar vita a qualche atto di disobbedienza civile, di resistenza o di rivolta fiscale?
ESEMPI DEL PASSATO
Ribellarsi contro un fisco predone, anche senza violare la legge, non è impossibile. Tra poco lo dimostreremo. E oltretutto, la storia è piena di esempi di resistenza fiscale. Qui ne citeremo tre. Una famosa ribellione contro le tasse fu quella dei coloni americani che nel 1774 si rifiutarono di pagare le tasse alla madrepatria britannica. Fu l'inizio di una rivoluzione che portò alla conquista dell'indipendenza americana. Nel 1930, la campagna del Mahatma Gandhi per l'indipendenza dell'India ebbe uno dei suoi punti chiave in una protesta fiscale nei confronti degli occupanti britannici. Tale resistenza ebbe il suo culmine con la famosa marcia attraverso l'India. E metodi simili di disobbedienza civile, in relazione alle tasse, furono adottati anche da Martin Luther King.
Un caso che invece interessa noi da vicino fu quello della California, dove nel 1978 i cittadini chiesero e ottennero un referendum locale riguardante la tassazione delle case. La legge che ne venne fuori (la famosa "Proposition 13") rese illegale l'aumento delle imposte sugli immobili. E' un episodio che potrebbe servirci da esempio: l'Ici sulla prima casa, così come l'Imu prevista dal precedente governo, è la forma più odiosa di prelievo fiscale, perché va a colpire il patrimonio in un bene primario, per il quale molte famiglie si accollano mutui ultradecennali.
COSA FARE OGGI: CARBURANTI E LOTTERIE
Andando più nel concreto e nell'immediato, invece, qualcosa si potrebbe fare subito. Cominciando proprio dai carburanti, le cui accise (statale e regionale) hanno fatto salire i prezzi a livelli ormai intollerabili, soprattutto se si considera che tali aumenti si aggiungono a quelli scandalosi di autostrade e trasporti pubblici. Si dovrebbe perciò evitare di fare rifornimento ai distributori Agip, controllati dall’Eni e che garantiscono al ministero dell’Economia qualche miliardo di dividendi annui. E un'altra voce importante delle entrate del Tesoro sono ovviamente i Monopoli, a cominciare dai giochi e dalle lotterie. Sarebbe una forma di protesta clamorosa, se tutti gli Italiani boicottasero Lotto, Superenalotto, Totocalcio, scommese, Gratta e Vinci e chi più ne ha più ne metta.
In generale, dovremmo evitare di acquistare prodotti e servizi dello Stato, come l'energia elettrica per esempio, scegliendo soluzioni alternative e magari più economiche.
CINQUE PER MILLE E SCADENZE
E anche quando siamo proprio costretti a pagare, dobbiamo cominciare a farlo con più malizia e, soprattutto, senza regalare nulla allo Stato. Quindi attenzione quando si compila la dichiarazione dei redditi: meglio donare il 5 per mille ad un'associazione, anziché lasciare che venga incamerato automaticamente dall'erario. Né tantomeno bisogna essere superficiali su tutti gli acquisti deducibili, perché a volte la pigrizia ci porta a non conservare scontrini e fatture o, peggio ancora, a non essere ben informati su tutti gli acquisti che si possono "scaricare".
I lavoratori autonomi, infine, dovrebbero evitare di pagare alla scadenza tutti i tipi di imposte dovuti all’erario, quali ad esempio Iva, Ire (ex  Irpef) e addizionali, Irap, Irpeg, contributi Inps, effettuando il pagamento in ritardo di mesi o addirittura anni, e accollandosi in questo caso i costi delle penali che sono del tutto irrisori, nell’ordine del 6 per cento annuo sul dovuto. 
Si tratta di iniziative solo in apparenza velleitarie, perché se attuate da tutti costituirebbero un segnale forte all'indirizzo di una classe politica (italiana ed europea) le cui strategie di politica economica, ormai, non riescono ad andare oltre l'orizzonte limitato dell'imposizione fiscale indiscriminata. Il perché lo sapete, basta vedere gli sprechi pubblici presenti a tutti i livelli di governo. E purtroppo i normali strumenti democratici non bastano più per far sentire la nostra voce.     

Nessuno lavorerà più di noi

Il nostro sistema pensionistico potrebbe diventare il più "severo" del mondo. Dalle baby-pensioni alle retribuzioni gonfiate, ecco tutti i regali fatti alle generazioni passate e che pagheranno quelle presenti e future

In pensione a 66 anni o con almeno 42 anni di contributi (41 per le donne). Questa la proposta-choc che il governo Monti sottoporrà alla discussione del Parlamento e che, se dovesse passare, farà degli Italiani il popolo con più anni di lavoro sul groppone. E non solo per quelli del futuro, visto che la riforma coinvolgerà decine di migliaia di lavoratori che erano ormai prossimi alla pensione. Per moltissimi di loro, peraltro, l'assegno, quando avranno maturato i requisiti, non sarà più calcolato sulla base del sistema retributivo o di quello misto retributivo-contributivo (come prevedeva la riforma Dini del 1995), bensì su quello contributivo integrale. Il danno e la beffa.
Ma perché così tanto accanimento su queste benedette pensioni? Perché, insomma, il sistema pensionistico italiano, così com'è strutturato attualmente, non è finanziariamente sostenibile? Nel modo più sintetico possibile, l'Attaccabrighe cercherà ora di rispondere a questa domanda che i cittadini comuni si pongono. Scopriremo che quello degli anni di lavoro o di vecchiaia è solo uno dei problemi della nostra previdenza, e neanche il più importante.
Sono quattro, nello specifico, i punti deboli che hanno fatto del sistema pensionistico italiano una macchina mangia-soldi: a) l'età pensionabile; b) il sistema di calcolo delle pensioni; c) le baby-pensioni; d) le finte pensioni di invalidità. Sul punto a) abbiamo già scritto nel precedente articolo, dimostrando che all'inizio degli anni '90 il divario tra l'Italia e i partner europei non era così abissale. Da noi, infatti, si andava in pensione con 57 anni di età o con 32 di contributi, che la riforma Dini del 1995 portò a 35, fissando anche un'età minima di 54 anni (portata poi a 57 nel 2001). Di certo si lavorava un po' meno rispetto agli altri, se si pensa che proprio a metà anni '90 la Germania riformava le pensioni di anzianità in questo modo: 63 anni di età e 35 di contributi, due requisiti entrambi obbligatori e non alternativi. Con la pensione di anzianità i tedeschi percepiscono inoltre qualcosa in meno rispetto a chi prosegue fino ai 65 anni per maturare il diritto alla pensione di vecchiaia. A noi sarebbe bastato copiare pari pari questo impianto, senza dubbio il più equilibrato che ci sia, per evitare la stangata che ci sarà rifilata dal governo Monti e che farà sembrare quasi morbido il sistema tedesco (loro, per esempio, porteranno le pensioni di vecchiaia a 67 anni solo nel 2029). Purtroppo abbiamo rifiutato per anni questo cambiamento (forte ma non traumatico), limitandoci a qualche riformina che rinviava all'infinito un serio aggiustamento dei conti. Così adesso dovremo sottoporci ad una terapia d'urto.
Quello dell'età pensionabile, tuttavia, non è il difetto principale del nostro sistema previdenziale. Per le casse degli istituti di previdenza è stato certamente più oneroso il modo in cui venivano calcolati gli assegni. Fino al 1995, infatti, questo calcolo veniva fatto sulla base del sistema cosiddetto "retributivo". In pratica, l'assegno corrispondeva grosso modo ad una sorta di media degli stipendi percepiti negli ultimi cinque anni di servizio. In apparenza giusto, ma di fatto insostenibile nel lungo periodo, non solo perché una parte delle pensioni vengono pagate con i contributi dei lavoratori attivi, ma soprattutto per via di un fenomeno assai diffuso nella nostra Italia, in particolare nel settore pubblico: quello delle retribuzioni gonfiate negli ultimi anni di servizio, durante i quali diverse categorie ottengono repentini scatti di carriera oppure hanno la possibilità di alzare la propria retribuzione con straordinari mai fatti in giovane età. Il tutto finalizzato, ovviamente, ad un aumento dell'assegno pensionistico. La riforma Dini (1995) stabilì che con il sistema retributivo sarebbero state pagate solo le pensioni di coloro che alla data del 31 dicembre 1995 avevano maturato almeno 18 anni di contributi; per gli altri, invece, sarebbe entrato in vigore un sistema misto: retributivo per gli anni di servizio antecedenti a quella data, "contributivo" (cioé basato sul rapporto tra quanto effettivamente versato all'istituto di previdenza sottoforma di contributi ed un coefficiente particolare) per gli anni successivi. Per chi cominciava a lavorare dal 1996, invece, valeva il contributivo integrale. Risulta evidente che sarebbe stato più opportuno far passare subito tutti al contributivo integrale: ciò avrebbe aiutato le casse degli istituti di previdenza e inoltre si sarebbe evitata a molti lavoratori la beffa di vedersi modificato il sistema di calcolo della pensione qualche anno prima di prenderla, come appunto accadrà in seguito alla riforma dell'attuale governo.
E veniamo ora ai punti c) e d), ovvero quelli relativi alle "pensioni-regalo". Per qualcuno il vero buco nero del sistema pensionistico italiano. Di sicuro fra le cause principali dello squilibrio fra entrate e uscite.
Per “baby-pensioni” si intendono quelle pensioni erogate dallo Stato italiano a lavoratori del settore pubblico che hanno versato i contributi pensionistici per pochi anni o che hanno avuto la possibilità di ritirarsi dal lavoro con età inferiore ai 40-50 anni. Le baby pensioni furono inaugurate nel 1973 dal governo Rumor con una legge che consentiva ai dipendenti pubblici di ritirarsi con pochi anni di anzianità: 14 anni, 6 mesi e 1 giorno di contributi per le donne sposate con figli, 20 anni per gli statali, 25 per i dipendenti degli enti locali. Sono state eliminate solo nel 1992. Secondo una recente inchiesta del Corriere della Sera i baby-pensionati sarebbero circa mezzo milione e costerebbero allo Stato, udite udite, circa 9 miliardi di euro l’anno. Ogni commento è superfluo, perché qui i numeri parlano davvero da soli.
E che dire delle pensioni di invalidità immaginaria? Anche qui le statistiche sono da brivido. Secondo un'indagine pubblicata questa estate dal sito linkiesta.it, ancora oggi, nonostante il fatto che i controlli siano stati enormemente inaspriti rispetto al passato, le pensioni per finti invalidi ci costano 8 miliardi di euro l'anno. In Sardegna, stando ai controlli Inps del 2010, il 53 per cento delle pensioni non avrebbe motivo di essere erogato. Al secondo posto c’è l’Umbria, con un tasso del 47 per cento. Seguono Campania (43 per cento) e Sicilia (42 per cento). Nell'articolo si legge che "si è creata una situazione paradossale: al diminuire delle richieste di riconoscimento dello stato invalidante, la spesa per le pensioni di invalidità continua a crescere. Nel 1998 sfiorava l’equivalente di 6 miliardi di euro, lo scorso anno è arrivata a 16 miliardi". E tutto ciò malgrado il fatto che, sempre nel 2010, sia stato cancellato il 23 per cento delle pensioni (invalidità civile o indennità di accompagnamento), in pratica una su quattro.
Le statistiche offrono vari spunti di riflessione. Uno su tutti, e cioé che è giusto adeguare l'età di pensionamento alla media europea (l'Italia andrà ben oltre), ma nessuno ci venga a dire che il disavanzo dei conti della previdenza dipende solo dall'età con cui mediamente le persone oneste vanno in pensione.
Ora la parola passa all'aula. E a tal proposito sarà interessante verificare come reagiranno i partiti a questa proposta del governo: di sicuro, non potranno continuare a nascondersi dietro i professori e i banchieri.

Un Paese sempre più surreale

Dopo aver rimandato all'infinito la riforma delle pensioni, ora ci lasceremo stangare in un modo che a confronto i tedeschi sembreranno delle cicale. In compenso anche i parlamentari si "sacrificano": migliaia di euro al mese di vitalizio con 60 anni di età e 5 di mandato

Se non si tratta del solito bluff all'italiana, questa volta pagheremo il conto con tutti i salatissimi interessi. Il governo dei professori e dei banchieri, assoldato dai poteri forti con il beneplacito dei partiti per fare il lavoro "sporco", sta infatti preparando una nuova riforma delle pensioni, questa volta traumatica.
Queste le ipotesi in campo: a) abolizione delle pensioni di anzianità contributiva per lasciare solo quelle di vecchiaia, che già tra una decina d'anni dovrebbero essere fissate a 67 anni per gli uomini e a 65 per le donne (come da riforma del governo Berlusconi); b) accanto ad un innalzamento dell'età necessaria per la pensione di vecchiaia, aumento dei requisiti minimi per la pensione di anzianità (età anagrafica + età contributiva), per esempio alzando l'anzianità contributiva richiesta ad un minimo di 40 anni (oggi il minimo è 35); c) pensione di vecchiaia a 67 anni per gli uomini e a 65 per le donne. In alternativa, 40 anni di contributi per la pensione di anzianità (ma si è ipotizzato addirittura 43).
Questa la situazione in soldoni. Anche ai più sprovveduti risulta evidente che, qualunque sia la scelta del governo, non si tratterà di una riforma minimalista tipo quella del governo Dini (1995) o quella del governo Berlusconi (2004), resa ancora più inutile dalla controriforma di Prodi (2007).
Abbiamo rimandato per anni un serio aggiustamento del sistema pensionistico, causa resistenze conservatrici imputabili in particolare alla sinistra, ma non solo alla sinistra (come dimenticare il 2004 con mezza Italia in piazza contro la riforma Maroni, robetta rispetto a quella che ci viene prospettata adesso). Avendo ostinatamente rifiutato una terapia leggera e graduale, poiché poi la malattia è degenerata, ora dovremo sottoporci ad una terapia d'urto. Già, perché la stangata sarà così potente che i tedeschi al confronto sembreranno delle cicale, degli spendaccioni senza ritegno.
Non si pensi infatti che in Germania si vada in pensione molto più tardi di noi. Questa è solo una balla che ci viene propinata da anni. Anche i tedeschi, infatti, hanno la loro pensione di anzianità, alla quale si arriva con 63 anni di età e 35 di contributi, quindi non molto lontana dalla nostra attuale somma età anagrafica + anzianità contributiva. Il fatto è che in Germania tale sistema è in vigore dall'inizio degli anni '90, quando da noi si andava in pensione con 35 anni di contributi o con 58 di età. E così si è continuato a fare fino al 2007, quando entrò in vigore la riforma Maroni. La quale era già di per sé abbastanza minimalista visto che, oltre ad essere stata rinviata di tre anni per motivi di bassissimo opportunismo politico (era stata approvata nel 2004), rendeva molto, fin troppo graduale l'aumento dei requisiti minimi. Come se ciò non bastasse, il governo Prodi, ricattato dal sindacato, ne rallentò ulteriormente i cosiddetti "scalini" o coefficienti. Tutto questo derogare, si badi bene, fu dovuto, nell'uno e nell'altro caso, al fatto che c'era mezza Italia col coltello tra i denti.
Per farla breve, noi dovevamo solo recuperare un ritardo, le cui conseguenze erano aggravate dal fenomeno delle baby-pensioni e da quello delle pensioni di invalidità immaginaria, con il quale sicuramente la Germania (li abbiamo scelti come modello) non ha dovuto fare i conti. Se poi non ti dai da fare per recuperare il ritardo, ne paghi le conseguenze, come appunto succederà a noi. Quanto alle pensioni di vecchiaia, peraltro, potremmo addirittura superare i tedeschi, visto che l'innalzamento dell'età pensionabile a 67 anni per gli uomini potrebbe essere anticipata al 2020, mentre invece in Germania vi arriverà nel 2029. Tuttavia, sappiamo che almeno oggi le pensioni di vecchiaia sono ancora in netta minoranza rispetto a quelle di anzianità, in Italia come in Germania, per quanto i giornali e le tv continuino a parlare sempre delle prime.
In ogni caso, cittadini italiani, potrete consolarvi col fatto che la casta dei politici sarà solidale con voi. Anche i parlamentari, infatti, cominceranno a fare "sacrifici". La loro pensione, da ieri, sarà basata sul sistema contributivo e non più su quello retributivo. Ma pur considerando che i parlamentari versano appena il 9 per cento della loro indennità, essendo quest'ultima assai cospicua, il vitalizio (esentasse) sarà comunque di tutto rispetto. Per ottenerlo, bisognerà attendere di aver compiuto i 65 o i 60 anni di età, ma basterà comunque aver completato, rispettivamente, uno o due mandati. Le nuove regole riguarderanno 200 dei parlamentari attualmente in carica. Ilona Staller, in arte "Cicciolina", è riuscita invece a sfuggire a queste nuove regole per soli tre giorni e così percepirà tre mila euro al mese per tutta la vita. Con tutto quello che ha "percepito" nella sua carriera, è il minimo...    
   

Quando la politica fa e la giustizia disfa

Leggi approvate dal Parlamento, ma poi cancellate dalla magistratura, quando non addirittura ignorate dai giudici. Norme scritte male, talvolta, ma anche sentenze dal sapore ideologico

Il Consiglio di Stato ha deciso di cancellare tutte le procedure d’urgenza eseguite in varie città italiane per arginare il problema delle baraccopoli irregolari e del loro impatto di criminalità nei quartieri. Vengono abrogate così le norme sull’identificazione, sui censimenti e sulla vigilanza fuori dai campi, nonché le regole di convivenza stabilite dalle istituzioni. Quanto all'ordinanza emanata tre anni fa dalla presidenza del Consiglio, e alla quale si erano attenute le amministrazioni comunali, per il Consiglio di Stato le motivazioni sono insufficienti per decretare lo stato di emergenza per un pericolo più paventato che realmente esistente.
Non è che l'ultimo caso in cui le sentenze giudiziarie cancellano, perché ritenute illegittime, delle leggi approvate dal Parlamento o dei decreti varati dal governo. Non si può fare a meno di notare che negli ultimi tre anni questi episodi si siano moltiplicati e come a farne le spese sia stato soprattutto il pacchetto sicurezza, ormai praticamente svuotato. E' facile immaginare che il cittadino comune resti sconcertato se delle norme che dovrebbero garantirne la sicurezza vengono cancellate dalla sera alla mattina. Ma di chi è la colpa? Dei politici che scrivono leggi palesemente incostituzionali o formalmente scorrette? O dei magistrati che nel verificarne la legittimità si lasciano influenzare dalle loro idee politiche? Diciamo un po' tutte e due.
Per capire basta analizzare quanto accaduto negli ultimi anni. Cominciamo dall'autunno del 2009, quando l'allora ministro dell'Interno, Roberto Maroni, dichiarò alle agenzie che «la legge sulla clandestinità è chiara, la capisce anche un bambino di sei anni. Non può esistere che un magistrato dica che è una legge incomprensibile. Non possiamo accettare che i magistrati la interpretino in un modo o in un altro». Fatto sta che era esattamente ciò che i magistrati facevano. A due anni di distanza, nell'aprile del 2011, saltò fuori una circolare interna del capo della procura di Milano, Bruti Liberati, con la quale questi chiedeva ai suoi aggiunti e ai suoi pm di annullare gli arresti per clandestinità. Si trattava di una legge della Repubblica Italiana, approvata nel 2008 dal Parlamento, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale e mai abrogata. Ma per tre procuratori della Repubblica che seguirono l'esempio di Bruti Liberati la legge che prevedeva il carcere per gli immigrati clandestini non esisteva più. I tre procuratori avevano vivamente «suggerito» ai loro sostituti di considerare estinta la norma. Sicché a Milano, Firenze, Roma e Lecce, nessuno straniero veniva più arrestato, come pure prevedeva la legge, per violazione dell’obbligo di lasciare il Paese. Il tutto senza che la decisione parlamentare fosse stata rimossa dall’ordinamento in seguito a ricorsi alla Corte Costituzionale o ad un referendum abrogativo.
Di lì a poco, una sentenza controversa della Corte di Giustizia europea mise tutti d'accordo, chiedendo all'Italia di cancellare il reato di clandestinità (anche se solo all'Italia e non ad altri Stati membri che pure prevedono il medesimo reato). Ora, si potrà anche essere favorevoli o contrari al reato di clandestinità (personalmente sono contrario): ma è normale che il potere giudiziario si rifiuti di applicare le leggi approvate dal Parlamento liberamente eletto?
E' vero anche, come accade spesso, che alcune leggi sono palesemente incostituzionali. Meno di un anno fa, per esempio, la Corte Costituzionale annullò una norma con la quale era stato deciso il carcere obbligatorio per il reato di stupro, poi ampliato ai casi di omicidio che erano stati equiparati ai delitti di mafia. Una forzatura inammissibile, dissero i giudici della Consulta, che l'anno prima avevano già eliminato la parte relativa alla violenza sessuale. Questo è il caso tipico di una legge la cui incostituzionalità potrebbe rilevarla anche un bambino. Ma un qualunque avvocato potrebbe citarvi mille esempi di leggi legittime dal punto di vista del rispetto del dettato costituzionale, ma scritte così male dal legislatore da diventare di fatto inapplicabili, in quanto incomprensibili. Tanto per capirci, sono queste le leggi che fanno felici gli avvocati più smaliziati.
D'altra parte le leggi, talvolta, sono dettate dal furore ideologico. Ma quando le idee politiche spingono le maggioranze di governo ad adottare determinate misure, credo che nessuno possa avere nulla da obiettare, se non nel caso in cui si abbiano delle opinioni diverse. Quando invece le idee politiche influenzano le sentenze con le quali il potere giudiziario cassa le leggi del Parlamento, il discorso cambia. Purtroppo, sempre in materia di sicurezza, è accaduto spesso che a leggi assolutamente ragionevoli siano state trovate delle imperfezioni così insignificanti da far adombrare il sospetto che dietro l'annullamento ci fossero rilievi di carattere politico, più che giuridico. Il caso più eclatante ha riguardato la sentenza con la quale, otto mesi fa, la Corte costituzionale ha annullato la cosiddetta legge sui "sindaci-sceriffi", che consentiva appunto ai sindaci di emettere ordinanze in materia di ordine pubblico e di decoro urbano. Sono state così vanificate tutte le norme contro le prostitute e i loro clienti, nonché i provvedimenti che colpivano l'accattonaggio molesto.
L'ultima chicca è di qualche settimana fa, quando è stata dichiarata illegittima la legge con la quale nel Nord Italia si aprivano delle sedi decentrate di alcuni ministeri. Tutti (o quasi) d'accordo sul fatto che si trattasse di una mastodontica stupidaggine politica, da seppellire con un diluvio di pernacchie, ma sul piano giuridico era ineccepibile. A chiederne la cancellazione, però, sapete chi è arrivato? Un giudice del lavoro che ha rilevato il fatto che nell'istituire le sedi periferiche non erano stati consultati i sindacati...

L'Italia di oggi vista da uno storico del 2041

In un Paese tesdardamente conservatore, solo delle personalità esterne ai partiti riuscirono a prendere decisioni impopolari su pensioni, lavoro e caste, sancendo il fallimento di una classe politica troppo pavida e immorale

Quando Monti andò a Palazzo Chigi, gli Italiani avevano alle spalle 18 anni durante i quali si erano sentiti ripetere fino alla nausea che il Paese era frenato da un mercato del lavoro con regole troppo rigide, dall'esistenza di caste (politici, magistrati, professioni, docenti universitari) chiuse e monolitiche, da un sistema pensionistico che divorava risorse pubbliche preziose, da infrastrutture poco moderne.
Ebbene, dopo 18 anni in cui le uniche riforme che la classe politica era riuscita a realizzare (pensioni e lavoro) si erano rivelate già vecchie nel momento in cui erano entrate in vigore, gli Italiani si erano svegliati una mattina e avevano scoperto che in due decenni di battaglie politiche furibonde si era solo perso tempo. Nove governi, dal 1994 al 2011, non avevano combinato quasi nulla, tanto che, quando arrivò il momento delle "decisioni irrevocabili", il Paese si dovette affidare a un governo di professori universitari e di banchieri, tutte persone di indiscusso valore professionale e di specchiata virtù, ma in ogni caso mai votati da nessuno. Un po' come quando il fratello minore, un po' asinello, non riuscendo a svolgere un compito che la prof. gli ha assegnato, se lo faccia fare dal fratello maggiore, più studioso e preparato.
Il governo dei professori (o "governo tecnico", come si usava dire all'epoca), oltre ad avere la copertura dei poteri finanziari e l'appoggio dei partiti, beneficiava di altri indubbi vantaggi: non era espressione delle forze politiche, non doveva rispondere direttamente agli elettori (che non lo avevano eletto) e le personalità che ne erano entrate a far parte erano consapevoli che il loro ruolo era a tempo determinato, nel senso che, una volta esaurito il compito che era stato loro assegnato, sarebbero tornati alle proprie cattedre liberando il posto ai politici di professione (solo alcuni ministri si ricandidarono alle successive elezioni, ma rimasero relegati in ruoli marginali, finendo lentamente nel dimenticatoio). Insomma, quasi un governo "usa e getta", un gruppo di "incorruttibili" senza macchia e senza paura (e soprattutto senza bacino elettorale), assoldati per fare il lavoro sporco.
L'Italia dell'epoca, infatti, era un Paese cocciutamente conservatore e i governi della Seconda Repubblica avevano fallito miseramente perché erano espressione di una classe politica immorale e pavida, che non era mai riuscita a spiegare ai cittadini le ragioni di riforme indispensabili per mettersi al passo dei partner europei (i quali le avevano realizzate già alla fine degli anni '90) e che per queste ragioni aveva sempre rinunciato a prendere decisioni impopolari, preferendo tirare a campare. Quei pochi tentativi che erano stati fatti per modernizzare il Paese erano stati sempre frustrati dal dilagante trasformismo che faceva cadere i governi come mosche.
Fatto sta che il governo Monti, contro ogni pronostico, nel giro di 15 mesi (dicembre 2011 - febbraio 2013) riuscì in quello che i partiti non erano stati capaci di fare in vent'anni: abolì le pensioni di anzianità e portò l'età per la pensione di vecchiaia a 67 anni per gli uomini e a 65 per le donne; abolì le province e obbligò molti piccoli Comuni a consorziarsi; ridusse il numero dei parlamentari e dei consiglieri regionali, abbassando le rispettive indennità; accorpò molti tribunali di provincia; abolì gli ordini professionali e liberalizzò il mercato del lavoro, rendendo possibili i licenziamenti anche per i dipendenti con contratto a tempo indeterminato. A due mesi dalle elezioni, solo violente proteste di piazza impedirono al Parlamento di approvare il disegno di legge con il quale il governo aveva reinserito, nel piano energetico, l'opzione nucleare. L'episodio pregiudicò la tenuta della maggioranza che tra l'altro era pronta ad approvare anche l'abolizione del valore legale dei titoli di studio, ovvero l'unica riforma decente nel campo dell'istruzione e della formazione che fosse stata proposta in Italia da 50 anni a quella parte. 
Quanto alla modernizzazione delle infrastrutture e dei servizi, questa sarebbe stata possibile solo negli anni successivi, ma sempre grazie al risanamento del bilancio pubblico fatto dal governo Monti, che rese possibile anche una riduzione della pressione fiscale, arrivata ormai a livelli intollerabili. E con l'abbassamento delle tasse anche l'evasione diminuì, perché molti contribuenti disonesti preferirono stare in regola con il fisco.
L'evasione fiscale, tuttavia, rimase ancora per anni una tra le più elevate in Europa; in generale, l'etica pubblica era (come ancora oggi) uno dei due principali handicap dell'Italia. L'altro continuò ad essere il divario Nord-Sud. In effetti, nonostante tutte le importantissime riforme realizzate, la crescita del Pil rimaneva modesta, il che era dovuto al fatto che solo una parte del Paese continuava ad essere una delle aree più sviluppate d'Europa, "tirando la carretta" per quella più arretrata della quale assorbiva una grossa parte dei disoccupati.
Il giudizio storico sul biennio 2011-2013, comunque, resta positivo, anche se non può sfuggire il fatto che il sistema democratico fu commissariato senza tanti complimenti. La Terza Repubblica avrebbe accentuato la crisi dei partiti come strumento di partecipazione dei cittadini alla vita politica, mentre la riforma costituzionale del 2015 diede alla democrazia tratti sempre più decisionisti e quasi autoritari.
  

La bufala del modello energetico tedesco

Le centrali nucleari saranno sostituite da 26 impianti a carbone, di cui la Germania è uno dei principali fornitori mondiali. Ma il carbone non è più inquinante dell'atomo?


In occasione del referendum è stato uno dei cavalli di battaglia degli anti-nuclearisti: seguire l'esempio della Germania che entro il 2022 rinuncerà all'atomo, dismettendo le proprie centrali elettronucleari. Nel frattempo, i tedeschi cercheranno di raggiungere l'ambizioso obiettivo di portare la produzione di energia derivata da fonti rinnovabili al 40 per cento, quindi ben oltre il 20 che si è proposto l'Unione europea.
Tutto vero, tutto bello. Peccato però che le "Repubbliche" e i "Corrieri" di casa nostra si siano dimenticati (si fa per dire) che la Germania ha in programma, già dal 2009 (2009), la realizzazione di 26 nuove centrali a carbone, il che comporterà l'ulteriore sfruttamento di una fonte il cui impatto ambientale, come noto, non è certo quello del mulino bianco.
Le mezze verità, come le bugie, hanno le gambe corte. Questo aspetto del piano energetico varato dalla Merkel era noto da tempo, ma sfido chiunque a trovarne notizia sui quotidiani o su internet nei giorni precedenti al referendum.
E' inutile, comunque, dilungarsi in polemiche sterili. Ciò che più conta è cercare di capire come va il mondo, non quello dei sogni, ma quello reale dei Paesi industrializzati. Già la notizia che Obama avesse stanziato fondi per la costruzione di un certo numero di nuove centrali nucleari (15/20) aveva fatto vacillare la venerazione di cui era oggetto il presidente americano da parte dei fanatici dellla "green economy". E forse proprio per questa ragione gli stessi fanatici hanno preferito chiudere un occhio sullo scempio tedesco.
Già, perché di uno scempio ambientale si tratta. Il carbone, infatti, al pari di tutti i combustibili fossili, causa un aumento della concentrazione atmosferica di anidride carbonica e di polveri sottili, oltre a contenere tracce di elementi come l’arsenico, il mercurio, l'uranio ed altri isotopi radioattivi. Anche in Italia ne sappiamo qualcosa, in particolare dalle parti di Brindisi, dove secondo un'indagine del Wwf, l'impianto Enel di Cerano assorbe, da solo, il dieci per cento di tutte le quote di emissione disponibili per il settore termoelettrico. Una centrale a carbone, in generale, durante il suo funzionamento emette nell’aria più radioattività di quella che emette una centrale nucleare di pari potenza. Insomma, di fronte all'installazione di un impianto a carbone, persino i più insensibili alle tematiche ambientali potrebbero fare le barricate. E a tal proposito, già in agosto si sono verificate delle manifestazioni di protesta nel Nord della Germania contro una centrale prevista nei pressi di Amburgo. 
In definitiva, il modello tedesco, rappresentato come un esempio da seguire, più che un modello "green", sembra un modello "real", nel senso di realistico. Solo l'Italia, infatti, si permette il lusso di rinunciare a tutto, puntando solo sulle importazioni e su un "futuribile" sviluppo delle energie rinnovabili. In Germania, invece, dove sono abituati a produrre in casa più del 50 per cento dell'energia consumata, la Merkel non poteva raccontare ai propri connazionali che da un giorno all'altro la percentuale di autosufficienza si sarebbe ridotta drasticamente.
Per questa ragione il nucleare, in Germania, verrà rimpiazzato da 26 impianti termoelettrici a carbone, di cui il sottosuolo tedesco è ricco (anche se preferiscono importarne una grossa parte per non esaurire le risorse interne). Peraltro, pare che i siti individuati non si trovino tutti sul territorio nazionale. La Polonia, per esempio, avrebbe già accettato la proposta di far realizzare in Alta Slesia, all'interno dei propri confini, una mega-centrale.
Più "real" di così...

Una nazione, milioni di banderuole

Dal Risorgimento ad oggi, i casi più clamorosi di trasformismo che hanno fatto dell'Italia il paese dei voltagabbana

Giovane leva della Democrazia Cristiana, poi iscritto a Forza Italia, quindi passato al Partito popolare italiano, poi ancora all'Udeur, prima di concludere la propria transumanza approdando all'Italia dei Valori. In mezzo, svariate esperienze in liste del presidente, per le elezioni provinciali e regionali. Questa è la storia di un politico pugliese della provincia di Lecce, Aurelio Gianfreda, sconosciuto a livello nazionale, ma nell’agone politico da più di vent’anni. Non si pensi, però, ad un caso isolato, perché di esempi del genere nella storia recente se ne potrebbero citare a iosa. E a dirla tutta, non solo nella storia recente.
In effetti, il “trasformismo”, termine coniato nella seconda metà dell’Ottocento ad indicare scelte e collocazioni politiche che andavano al di là delle convinzioni ideologiche, è un male antico della politica italiana. Gli antenati di Scilipoti e Mastella, infatti, sono numerosi e i loro “salti della quaglia” risalgono addirittura al Risorgimento. Ad inaugurare questo atteggiamento politico fu l’esponente della Sinistra storica (da non confondere con la Sinistra socialista) Agostino Depretis, il quale nel 1874 divenne presidente del Consiglio sostenuto da una maggioranza espressione della Sinistra liberale, ma che per i provvedimenti più importanti cercava e otteneva il sostegno di esponenti della Destra. Una sorta di maggioranza trasversale o di “larghe intese” d’antan, quindi non necessariamente da intendersi in un’accezione negativa. E in effetti all’epoca non veniva visto così, il trasformismo, anche se qualcuno storceva già il naso, soprattutto perché risultava utile ai “trombati” affinché questi si ricollocassero politicamente.
Esempi di voltagabbana risorgimentali a tutto tondo furono invece gli esponenti dell’aristocrazia meridionale di origine borbonica o spagnola, i quali riuscirono a ritagliarsi uno spazio nel nuovo Stato unitario e a conservare in gran parte i propri privilegi, grazie ad un atteggiamento che parecchi decenni dopo il siciliano Tomasi di Lampedusa avrebbe chiamato “gattopardismo”, ma che già a fine Ottocento il napoletano Federico De Roberto denunciò implicitamente nel romanzo “I Vicerè”: “Prima comandava il re e noi eravamo amici del re. Ora comandano i pezzenti e noi dobbiamo essere amici dei pezzenti”, sosteneva il principe Giacomo, uno dei personaggi principali del romanzo.
Poco più tardi, uno storico voltafaccia fu quello che vide come protagonista il socialista Benito Mussolini, che nel 1914 si schierò apertamente a favore dell'intervento dell'Italia nel conflitto mondiale e che, dopo essere stato espulso dal partito, dalle colonne del Popolo d'Italia, quotidiano da lui stesso fondato, diede vita ad un'accesa campagna interventista finanziata da influenti gruppi industriali. Dopo la guerra, Mussolini, che nel frattempo aveva fondato i "Fasci di combattimento", non si staccò dalle sue radici ideologiche, come dimostra l'impronta decisamente socialista data al programma del movimento. Ma quando la monarchia, gruppi conservatori e lobby industriali ne favorirono l'ascesa al potere, la svolta liberista fu inevitabile, almeno fino alla crisi del '29, in seguito alla quale fu avviata una politica sempre più statalista. Ma d'altra parte il Fascismo era poliedrico per definizione e il suo leader lo aveva precisato fin dall'inizio.
Forse fu proprio per questa ragione che un numero impressionante di fascisti, nel dopoguerra, riuscì a riciclarsi come democristiano e persino come comunista. Fra questi, anche molti intellettuali (Bocca, Scalfari, Guttuso, per citare solo alcuni dei più celebri, ma la lista è lunghissima), alcuni dei quali risultavano anche tra i firmatari del Manifesto sulla razza del 1938. D'altro canto, è arcinoto che per gran parte degli Italiani il passaggio dal fascismo all'antifascismo fu così fulmineo da indurre Whiston Churchill a liquidare questo fenomeno, ai suoi occhi sorprendente, con una delle sue battute: "Un giorno 45 milioni di fascisti, il giorno successivo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti".
Ormai il fascismo era alle spalle e l'Italia aveva (ri)conquistato la democrazia. Ciò tuttavia non mise fine al malcostume dei funambolici cambi di casacca, anche se tale fenomeno, almeno fino agli '80, rimase circoscritto quasi esclusivamente all'ambito locale. A livello nazionale esplose invece mentre la prima repubblica emetteva gli ultimi palpiti di vita, con la precipitosa corsa a riposizionarsi dei pochi superstiti di Dc e Psi. Ne successero di ogni. Uno dei tanti casi noti (che qui, per motivi di spazio, è impossibile elencare), fu quello di Francesco Rutelli: giovane esponente dei Radicali, sul finire degli anni '80 passò ai Verdi, nelle liste dei quali fu eletto sindaco di Roma; dopo una breve esperienza nei Democratici, contribuì alla fondazione della "Margherita", partito che raccoglieva tutti i gruppi centristi del centrosinistra e che sarebbe confluito a sua volta nel Partito Democratico. Dal quale, però, un anno e mezzo fa, Rutelli è uscito per fondare "Alleanza per l'Italia".
L'ex leader della Margherita, se non altro, può rivendicare il fatto di essere rimasto sempre nell'area di centrosinistra. Un titolo che invece non può assolutamente sbandierare Clemente Mastella, le cui indimenticabili giravolte ne hanno contraddistinto la carriera. Esponente della Democrazia Cristiana, dopo il terremoto di "Manipulite", Mastella fondò con Casini il "Centro cristiano-democratico", alleato di Berlusconi nel centrodestra alle elezioni del 1994 e del '96. Quando il governo di centronistra, guidato da Romano Prodi, perse l'appoggio di Rifondazione comunista (1998), arrivò in soccorso del nuovo governo D'Alema la stampella di Ceppaloni e di altri suoi sodali anch'essi eletti nel centrodestra, e con i quali Mastella avrebbe poi fondato l'Udr prima e l'Udeur poi. Quando la sinistra tornò al governo nel 2006, fu proprio questa piccola formazione politica (quando si dice la Nemesi) a far cadere il governo Prodi. L'Udeur, nel frattempo, veniva travolto dalle inchieste giudiziarie, anche se Mastella, nel 2009, ha trovato il modo di farsi eleggere all'europarlamento nelle liste del Popolo della Libertà.
Quelli riportati sono solo i casi più clamorosi di un fenomeno, il trasformismo, ben più diffuso, e che nei decenni è diventato quasi il tratto distintivo della politica italiana. D'altronde, anche le due forze politiche attualmente più votate, PdL e Pd, ne sono un parziale esempio: da una parte neofascisti diventati "post" e poi "ex", nonché socialisti e finanche comunisti passati a destra; dall'altra ex comunisti convertiti al liberalismo, oltre ai vari democristiani erranti. Il resto è storia recente: da Fini a Scilipoti, da Dini alla Carlucci (ci scusino quelli che non vengono citati), le trasmutazioni politiche continuano a decidere i destini dei governi, facendo dell'Italia la degna patria di Niccolò Machiavelli. E di Gianfreda.      

Un teatrino sempre più indecente

Il crac finanziario ha coinvolto il mondo intero e a tutti i leader ha causato ripetute sconfitte elettorali. Ma l'unico Paese in cui l'argomento prioritario è come ribaltare il governo, tanto per cambiare, è l'Italia

Adesso anche i fedelissimi cercano di convincere Silvio a mollare, prima ancora di essere sfiduciato dal Parlamento. Segno che per l'attuale governo Berlusconi la maggioranza è irrimediabilmente evaporata. In effetti, il suggerimento dei colonnelli del premier sembra quantomai saggio.
In attesa di vedere che cosa accadrà, ancora una volta non possiamo non evidenziare la singolarità della democrazia italiana. Un caso unico, il nostro, e per certi versi patologico. Solo da noi, infatti, la tenuta della maggioranza di governo è messa continuamente in discussione fin dal primo giorno. Già, proprio così: quante volte infatti avete sentito parlare di "maggioranza risicata" (e quindi a rischio) già durante le trasmissioni televisive che seguono lo spoglio delle schede? L'instabilità dei governi, ovvero il fatto che una volta chiuse le urne, non sappiamo se a distanza di un anno ci sarà la stessa maggioranza, è il male cronico che la politica italiana si porta dietro addirittura dal Risorgimento.
Nelle altre democrazie una roba del genere non è neanche concepibile. Per capirlo basta vedere ciò che è accaduto negli ultimi due anni in Germania, Francia, Stati Uniti e Spagna. Anche in questi Paesi, più che da noi, la crisi si è fatta sentire e ha avuto delle ripercussioni fortemente negative sui governi. In Germania la Merkel, nel 2011, sta passando di disfatta in disfatta, avendo perso tutte e sei le tornate elettorali che si sono svolte per il rinnovo delle amministrazioni dei Länder (le regioni tedesche). Eppure nessuno si sogna di mettere in discussione la cancelliera, anche perché ci sono regole precise che ne blindano la maggioranza (vedi questo articolo dell'Attaccabrighe http://lattaccabrighe.blogspot.com/2011/09/ma-la-legge-elettorale-che-cazzecca.html). Idem in Francia, dove Sarkozy, dopo aver perso le elezioni regionali del 2010, ha subito una sonora batosta anche alle ultime "cantonali" (in pratica le nostre provinciali), ma l'idea che il presidente possa dimettersi non è presa nemmeno in considerazione, visto che l'architettura istituzionale è congegnata in maniera tale da permettere all'esecutivo di completare il mandato salvo cataclismi (politici), anche in presenza di una maggioranza parlamentare di colore diverso. Regole molto simili esistono nella democrazia americana, dove le elezioni per il Congresso si svolgono quando il mandato presidenziale è già a metà, e perciò può verificarsi il caso - come è accaduto ad Obama - che il partito del presidente, in seguito alle elezioni, si trovi in minoranza in una o in tutte e due le camere (attualmente i Democratici hanno la maggioranza solo al Senato).
Si potrà obiettare magari che Francia e Usa sono delle democrazie presidenzialiste, ma quella tedesca non lo è. Ed è una democrazia parlamentare come la nostra anche quella spagnola, dove da tre anni i socialisti di Zapatero vengono sistematicamente asfaltati nelle elezioni locali, ma ciò non ha impedito al premier spagnolo di arrivare quasi a fine mandato (solo la situazione economica sull'orlo del crac lo ha costretto a dimettersi sei mesi prima dalla scadenza naturale della legislatura).
Insomma, nelle altre democrazie del mondo occidentale la tenuta della maggioranza di governo non è messa in discussione (e non può esserlo) nemmeno dopo ripetuti scossoni elettorali, tanto più se questi sono causati da una crisi economica internazionale di portata mai vista. Anzi, proprio la crisi induce le opposizioni ad assumere atteggiamenti costruttivi e a mettere da parte la tentazione di fare sgambetti a chi governa, mentre nella maggioranza si serrano i ranghi, rimandando a momenti più opportuni i regolamenti di conti interni.
In Italia, invece, si assiste al paradosso di chiedere le dimissioni del premier dopo che il suo partito ha perso solo qualche grosso Comune, e finanche dopo aver vinto. Perché, avete per caso dimenticato ciò che avvenne nell'aprile del 2010? Il centrodestra, dopo aver conseguito un successo nelle provinciali e nelle europee del 2009, vinse in modo trionfale le regionali, nonostante tutto il marasma che aveva preceduto le elezioni (crisi economica, escort, liste del PdL annullate, per dire le cose più note). Insomma, una vittoria che in qualunque Stato democratico (dove comunque le elezioni di medio termine hanno una loro valenza per verificare che ci sia ancora il consenso degli elettori) avrebbe blindato la maggioranza e il suo leader. Invece da noi, tempo 15 giorni (15) e il numero due del partito di maggioranza relativa decise di fare una scissione, rischiando di sfasciare senza motivo una forza politica che veleggiava intorno al 40 per cento.
Questo per dire quali dimensioni parossistiche abbia raggiunto il nostro esasperato parlamentarismo. Ora Berlusconi avrà anche disatteso gli impegni presi con gli elettori e per questa ragione, probabilmente, non ha più la maggioranza nel Paese. Ma gli altri partiti che i cittadini, nel 2008, hanno messo all'opposizione, hanno in mano soluzioni così geniali da dover anticipare la cacciata di Berlusconi e del suo governo, che in ogni caso andrebbe a casa nel 2013? E soprattutto, è solo dell'Attaccabrighe l'impressione che dietro tutto questo teatrino non ci sia tanto il desiderio di salvare l'Italia dal crac, quanto la sete di poltrone?

Ecco perché Renzi può farcela

Arroccata su posizioni conservatrici, la Sinistra italiana è la più arretrata dell'Occidente. Il sindaco di Firenze sembra essere l'unico in grado di indicare una prospettiva agli elettori. E non solo a quelli di sinistra

Lui lo ha chiamato "Big Bang", ma sembra di assistere più ad un'evoluzione naturale. Di cui lui, Matteo Renzi, 36 anni, sindaco Pd di Firenze, rappresenta l'ultimo stadio. Perché in realtà il Big Bang si è già verificato una ventina di anni di fa con il crollo del comunismo sovietico, mentre invece l'evoluzione della Sinistra italiana - quella che più di ogni altra nell'Occidente è stata egemonizzata dai comunisti - è ancora in corso ed è pure in clamoroso ritardo.
Già l'espressione "evoluzione della Sinistra", di per sè, è un "unicum" tutto italiano. Negli altri Paesi (Francia, Germania, Inghilterra) una Sinistra riformista, moderata e socialdemocratica è sempre esistita e fin dall'immediato secondo dopoguerra (in coincidenza con lo "scoppio" della guerra fredda) si è imposta sulle istanze massimaliste e rivoluzionarie che guardavano al modello sovietico, ma che in quei Paesi rimasero sempre minoritarie.
In Italia invece no. Vuoi per la presenza di conflitti sociali più aspri e di rivendicazioni di classe più spinte, vuoi per il ruolo fondamentale svolto dai partigiani comunisti durante la Resistenza, vuoi ancora per l'applicazione tenace del teorema di Gramsci sull'occupazione delle "case matte" (scuola, università, giornali, cultura), da noi i comunisti hanno sempre rappresentato la parte maggioritaria della Sinistra. Conosciamo l'obiezione: non erano veri comunisti. Però non erano neanche socialdemocratici, sia nel modo di condurre la lotta politica che nelle basi ideologiche.
Fatto sta che mentre nel resto dell'Europa occidentale la Sinistra faceva significative esperienze di governo (laburisti in Inghilterra, socialdemocratici nella Germania Ovest, socialisti in Francia), in Italia avevamo una Sinistra divisa tra la parte elettoralmente minoritaria gradualmente assorbita dalla Democrazia cristiana, e quella maggioritaria eternamente relegata all'opposizione in quanto comunista e filosovietica, quindi alleata di un nemico dell'Occidente, con tutte le conseguenze del caso: da un lato, conflitti di classe e scontro politico a livelli estremi; dall'altro, una sinistra continuamente sulle barricate, ossessivamente "anti-", molto poco riformista e men che meno progressista.
Crollato il Comunismo (1989-91), il Pci si sarebbe dovuto estinguere naturalmente, lasciando campo libero alle istanze riformiste, rappresentate in quel periodo dal Psi di Craxi. Invece avvenne il contrario: le inchieste giudiziarie sulla corruzione ("Tangentopoli" e "Manipulite") spazzarono via non solo i socialisti, ma anche la Dc e tutti i partiti moderati, spianando paradossalmente la strada agli sconfitti della Storia, ovvero ai comunisti o ex tali. I quali, nel frattempo, avevano sì cambiato nome, ma faticavano a mettersi alle spalle la loro storia. 
Di fatto restarono a metà del guado. Costretti a mettere in soffitta tutto l'armamentario ideologico del comunismo, ma incapaci nello stesso tempo di adeguarsi realmente all'ultradecennale esperienza delle socialdemocrazie europee, gli ex comunisti italiani, negli ultimi vent'anni, non hanno fatto altro che dilaniarsi tra la consapevolezza della necessità di riforme in senso liberista e anti-statalista e l'impossibilità di farle per mancanza di coraggio e per l'incapacità di fare una svolta ideologica decisa. Sicché i loro marchi di fabbrica sono diventati: a) la difesa tenace delle conquiste sindacali degli anni Sessanta-Settanta; b) l'ambientalismo esasperato quale surrogato dell'ostilità verso la proprietà privata; c) l'antiberlusconismo, ovvero l'odio contro un imprenditore miliardario diventato nel frattempo il leader della Destra (in pratica il nemico perfetto); d) una conseguente tendenza ad essere "anti-" e "contro", quindi poco inclini a indicare all'elettorato delle prospettive di cambiamento.
Il lungo excursus storico era doveroso per capire il contesto nel quale emerge la figura di Matteo Renzi. Un giovane che col passato dei leader del suo partito e della sua aerea politica non ha nulla a che fare e che, per ovvi motivi anagrafici, è inserito culturalmente ed esclusivamente nella nostra epoca, dagli anni Novanta ad oggi. A differenza dei suoi coetanei, tuttavia, ha carattere e coraggio, non ha paura di contrapporre le sue idee a quelle dei vecchi leader, dietro i quali non si nasconde per sfruttarne la scia, ma vuole scavalcarli perché sono semplicemente superati, come le loro idee.
L'Attaccabrighe non è pro-Renzi. Qui si sta tentando solo di fare l'analisi di un cambiamento ormai inevitabile. Quello di una politica che opera in un mondo diverso rispetto a quello del secolo scorso; un mondo in cui le differenze tra Destra e Sinistra sono sempre più sfumate e la praticità delle soluzioni ha la priorità rispetto all'ideologia. Questo accade negli altri Paesi. Dove la Sinistra non si fa dettare la linea dal sindacato estremista. E perciò nessuna sorpresa se le proposte di Renzi somigliano molto a quelle della Destra o se hanno dei connotati di populismo e di qualunquismo, perché in fondo, nel 2011, questi due termini non hanno necessariamente un'accezione spregiativa, se, come detto prima, un popolo oggi generalmente disinteressato alla politica chiede solo che questa garantisca, con soluzioni immediate e di buon senso, un minimo di benessere economico, di ordine e di pace sociale.
Renzi, per farla breve, ha tutte le caratteristiche che il leader politico moderno deve avere e che finora in Italia sono state incarnate solo da Berlusconi: abile nella comunicazione, decisionista, rapido e concreto nell'individuazione delle soluzioni necessarie a risolvere i problemi, concedendo poco o nulla all'ideologia.
Forse con Renzi (o con un altro come lui) sarà la volta buona che potremo superare il paradosso dell'Italia, dove i riformisti stanno a destra (o almeno ci provano) e i conservatori a sinistra.
PS Un consiglio a Renzi: un po' di sano anti-berlusconismo, a sinistra, ci vuole sempre. Magari meno patologico, meno ossessivo dei fan di Travaglio, ma alla quotidiana dose di anti-berlusconismo, seppur moderato, la Sinistra del 2000 non può rinunciare. Perché una Sinistra italiana senza nemici da combattere è un po' come una carbonara senza pancetta.            
    

Ecco perché l'Euro non funziona e rischia di crollare

I problemi della moneta unica spiegati ai non intenditori: non è una vera unione di patrimoni nazionali, non ha una vera banca centrale e nemmeno un vero Paese di riferimento

Pubblichiamo l'articolo di Fosca Bincher, "Sì, è una valuta strana. Per salvarla uniamo i debiti", uscito su Libero del 29 ottobre.
Che cosa manca all'euro per farne una moneta vera? E' semplice: un Paese di riferimento. La debolezza dell'euro è proprio quella. Perché è come se il dollaro rappresentasse non gli Stati Uniti, ma un pezzettino di ciascuno degli Stati che li compongono, che pensano gelosamente a mantenere la propria virtù, ma sono attaccabili uno per uno. Sotto l’euro esiste solo un paese virtuale, l’Europa, che però non ha messo insieme economie, ricchezze e debiti facendone una cosa sola. Ognuno va per conto suo. Chi è ricco si gode la ricchezza e semmai dà la mancia agli altri. Chi è povero resta povero. Chi ha debiti deve arrangiarsi per conto suo. Per sorreggere l’euro, ad esempio, abbiamo costruito la Banca centrale europea, quella che adesso andrà a guidare Mario Draghi. Quella in sé non è stata in grado nemmeno di difendere la Grecia dall’attacco della speculazione nell’ultimo biennio, figurarsi se era in grado di dare una mano a Italia e Spagna.
Basta citare qualche cifra: la Bce ha riserve in oro per 17 miliardi di euro, crediti in valuta per 39 miliardi, titoli in portafoglio di paesi dell’area dell’euro per 17,9 miliardi. Mettendo tutto insieme l’attivo ammonta a 163 miliardi d euro. Una nocciolina appena a fronte del fabbisogno della moneta unica. Dal 5 agosto al 21 ottobre scorso i soli acquisti di titoli di Stato sul mercato secondario effettuati per dare una mano a Italia e Spagna sotto attacco sono ammontati a 95 miliardi di euro. Non li ha compiuti la Bce, che non ne aveva le risorse, ma il cosiddetto eurosistema, che mette insieme tutte le risorse nazionali delle banche centrali dei paesi dell’euro. Di titoli pubblici in portafoglio ora hanno più di 220 miliardi di euro, cifra assai superiore all’attivo della Bce.
Cosa significa questo? Che più che l’euro, risulta attaccabile ogni paese che si è unito per creare la moneta più strana del mondo. Quando si costruisce una unione di paesi o di Stati che si riconoscono in una moneta, nessuno di loro dovrebbe essere attaccabile. E invece è esattamente quel che è accaduto e che sta accadendo. Con il risultato di deprimere i paesi che sono stati schiacciati dall’unione, e di essere costretti a inseguire con i tempi lenti della politica e lunghissimi della burocrazia comunitaria le rapide emergenze che scoppiano a macchia di leopardo.
L’Italia è sicuramente uno dei paesi più depressi dall’euro. Ha ottenuto una certa stabilità dei prezzi che però è stata molto sulla carta: l’inflazione è stata bassa, ma il prezzo di cambio del change over è stato così alto e sconveniente, da avere fatto subito lievitare i prezzi così tanto da valere per dieci anni. Le imprese italiane da sempre sono diverse da quelle degli altri paesi: medie e piccole, non sono in grado di investire in ricerca e tecnologia, si aggrappano alla qualità della manifattura e da sempre si sostenevano con la spinta del cambio: un po’ di svalutazione metteva le ali e le faceva entrare in mercati con più facilità. Eravamo fino all’euro un po’ i cinesi di Europa. Non essendo più possibile, dal 2002 questo paese non cresce più.
Che soluzioni restano per dare un corpo alla moneta che non ha nemmeno un’anima? Una sola, ed è quella su cui insiste Giulio Tremonti da tempo: unire patrimoni e almeno la quota del 60% del Pil dei singoli debiti. Che non devono più essere in Bund o Btp, ma in eurobond. O così, o salterà l’Euro.