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Castigat ridendo mores

Crisi Euro: e se per ripartire dovessimo prima indebitarci?

Ciò che sta accadendo oggi in Europa dimostrerebbe che la soluzione alla crisi, paradossalmente, sta nella sua principale causa: l'indebitamento. Apparentemente una bestemmia, ma forse è l'unico rimedio per rilanciare l'economia e poter poi ridurre il debito stesso
 
Ascoltando i dibattiti televisivi pre-elettorali si ha una diffusa percezione di affumicamento, soprattutto quando il tema della discussione è la crisi finanziaria dell’area Euro. Tanto il fumo, appunto, pochissimo l’arrosto, e in più la netta sensazione di ascoltare politici che non sanno di cosa parlano. O più probabilmente lo sanno, ma evitano di proporre soluzioni che vadano oltre quelle suggerite dall’euro bon ton.
Assodato che ormai le manovre improntate sul rigore non fanno diminuire il debito pubblico, tanto che quest’ultimo è tornato addirittura ad aumentare (troppo malridotta l’economia e sempre meno la ricchezza da tassare, mentre gli interessi sono tornati ai tempi della Lira), su questa crisi ho maturato un’idea che parte da un concetto tutt’altro che originale. Per uscirne, occorre abbassare le tasse, ovvero la fetta di ricchezza che il fisco si mangia affinché lo Stato possa effettuare tutte le spese necessarie. È un concetto universalmente condivisibile, anche perché l’unica alternativa sarebbe aumentare la spesa pubblica. In soldoni: o lo Stato lascia più denaro nelle tasche dei cittadini oppure lo regala – prendendolo o dai cittadini più ricchi o stampando moneta – sottoforma non solo di migliori servizi (non basterebbe), ma anche di impieghi pubblici, finanziamenti a fondo perduto, età pensionabile bassissima, spesa previdenziale molto generosa, etc. Credo che tutte le persone di buon senso propenderebbero per la prima ipotesi, ovvero un taglio significativo delle tasse, con una spesa pubblica, al limite, mantenuta stabile.
Non c’è bisogno di essere dei geni della matematica per capire che, riducendo in misura consistente la pressione fiscale senza contemporaneamente tagliare in maniera altrettanto consistente la spesa pubblica, il debito dello Stato aumenterebbe, almeno nell’immediato. È vero che nel giro di qualche anno, grazie alla riduzione delle tasse, tornerebbero a crescere gli investimenti, l’occupazione, i consumi, quindi la ricchezza da tassare, con un conseguente aumento delle entrate per lo Stato e dunque con una riduzione del debito. Questo è l’obiettivo finale. Tuttavia nell’immediato l’indebitamento crescerebbe, e anche di parecchio. Cosa fare quindi?

NO DEFICIT: MA È POSSIBILE?                                     Prima possibilità: evitare di indebitarsi. Come? Anche qui non c’è bisogno di essere un premio Nobel per l’economia per avere la risposta. Ovviamente è quanto mai opportuno continuare e, anzi, intensificare la lotta all’evasione. Tuttavia, fermo restando che non è possibile passare dal poliziotto di quartiere al finanziere di quartiere, e che quindi non è che possiamo vivere in uno stato di polizia fiscale, va detto che un recupero ancora più efficace dell’evasione non potrebbe mai compensare un taglio drastico delle tasse (chi sostiene il contrario ha bisogno di ricominciare con la matematica dalle elementari). Allora come evitare l’indebitamento? Una seconda opzione sarebbe quella di tagliare ulteriormente la spesa pubblica, però attenzione perché la questione è assai delicata e tutt’altro che scontata.
Ognuno di noi può constatare che di spese inutili, di sprechi pubblici anche sfacciati ce ne sono ancora parecchi e anche i professori al governo hanno fatto finta di non vederli. In compenso, però, sono state tagliate molte spese “utili” legate soprattutto ai servizi. Di conseguenza, non so quanto il dato finale potrebbe cambiare se i governi diventassero improvvisamente più giusti, tagliando con maggiore severità le spese inutili, ma salvaguardando la spesa pubblica “produttiva”.
 
LA SOLUZIONE CHE NON TI ASPETTI
Ecco quindi che bisogna prendere in considerazione l’ipotesi di non riuscire a compensare la diminuzione delle tasse, e di dover ricorrere così all’indebitamento. È noto che affermare un’idea del genere oggi, nel nostro continente, significa mettersi sul piano dell’eresia pura. Esiste, è vero, una scuola di pensiero che vede in un nuovo ricorso al deficit, l’unica via d’uscita dalla crisi, ma è largamente minoritaria, quando non addirittura sbeffeggiata. Fatto comprensibile, visto che la moneta unica è costruita principalmente sul concetto di “stabilità”, della moneta, dei bilanci e dell’inflazione. Detto questo, quale alternativa abbiamo al debito? Risposta: nessuna.
Il concetto spaventa, è naturale. Anche perché una volta fatto ripartire un trend di deficit, bisognerebbe fare obbligatoriamente qualcosa per finanziarlo. Se lo Stato incassa 100 e spende 115, i 15 mancanti li deve pur trovare da qualche parte. Come tutti sanno, l’unico strumento ad oggi conosciuto sono i titoli del debito pubblico. In pratica lo Stato vende le proprie “azioni” ad acquirenti privati, i quali alla scadenza di quei titoli (per esempio dieci anni) riscuotono i soldi inizialmente investiti più un interesse. Lo Stato ci perde, ovviamente, e il debito complessivo aumenta, però almeno si dispone della liquidità necessaria per far fronte agli impegni di spesa. E se gli interessi sono contenuti si può anche sperare di riuscire, attraverso politiche mirate, a ridurre il debito senza che il pagamento degli interessi vanifichi questo sforzo. Sappiamo tutti, però, che le cose da noi e in tutta l’area Euro sono andate in maniera diversa, soprattutto perché gli interessi sul debito sono da strozzini (il famoso “spread” è legato proprio all’andamento degli interessi), e nemmeno l’Euro, come si pensò negli anni ’90 quando vi entrammo (anzi fu questo il motivo principale per cui vi entrammo, la convinzione che i tassi sarebbero stati stabilmente bassi) ha aiutato in tal senso.
 
QUELLA PAROLA CHE IN EUROPA NON SI PUÒ NEMMENO PRONUNCIARE
In conclusione, che fare? Rispondo con un’altra bestemmia: bisogna tornare alla politica italiana degli anni Settanta – primi anni Ottanta. Dev’essere cioè la banca centrale, quindi la banca dello Stato (o degli Stati), a garantire i titoli del debito pubblico, coprendo innanzitutto gli interessi e almeno una parte dei titoli di debito. Il tutto sarebbe finalizzato a spendere in deficit senza creare nuovo debito. Sembrerebbe tutto facile, ma c’è un problema non di poco conto: dove prende i soldi la banca centrale? Indovinate: li deve stampare, e adesso le bestemmie diventano tre, sto proprio esagerando. È risaputo, infatti, qual è la possibile conseguenza quando uno Stato stampa moneta per far fronte al deficit, come si faceva prima dell’Euro e come di tanto in tanto fanno gli Usa oggi: si chiama inflazione, una parola che in Europa è vietato persino pronunciare.
Il diavolo però non è così brutto quanto lo si dipinge, anche se qualcuno lo dipinge brutto apposta per mettere paura. Premesso infatti che la svalutazione della moneta non ha come conseguenza automatica l’inflazione (nel ’92 svalutammo la Lira del 20% e l’inflazione rimase ferma) e premesso anche che la globalizzazione induce tutte le imprese dei paesi occidentali a contenere l’aumento dei prezzi per non perdere ulteriore competitività (ne hanno persa già a iosa), non è comunque un’eresia preferire un’inflazione temporaneamente al 7-8, persino al 10 per cento con una disoccupazione al 3-4 per cento, piuttosto che avere un’inflazione al 3 per cento come oggi, ma con un’economia al collasso perché abbiamo un 10-11 per cento di disoccupati. È vero che nel breve periodo di inflazione per i redditi bassi non ci sarebbe alcun vantaggio, dal momento che il minor prelievo fiscale sarebbe quasi del tutto vanificato dalla perdita di potere d’acquisto (in pratica un’altra tassa), ma i posti di lavoro in più darebbero all’economia uno slancio che non si vede più da decenni, con tassi di crescita abbastanza elevati. Non dimentichiamo poi che l’inflazione favorisce chi ha un debito, per esempio un mutuo, che grazie alla svalutazione perde valore.
A questo va aggiunto che molti esperti ritengono che l’inflazione sia uno spauracchio agitato spesso a sproposito, perché come spiegato prima non sempre questa è direttamente proporzionale alla svalutazione della moneta, anzi esperienze passate dimostrano che l’inflazione può rimanere sotto controllo anche con una moneta svalutata, specie se ciò avviene solo per un breve periodo. Da notare, infine, che un aumento della produzione e quindi dell'offerta, parallelo all'aumento di moneta circolante, attenua la crescita dell'inflazione e in teoria potrebbe addirittura annullarla.
                                                      EURO DUBBIO
Possibilità che delle proposte di cambiamento così radicali possano farsi largo nell’Europa di oggi? Zero, utopia pura. Nell’Europa unita non esiste nessunissima possibilità, anche perché l'Euro è emesso sì dalla Bce, ma ad uso e consumo dei mercati di capitali privati, da cui poi i singoli Stati devono comprarlo. Una politica come quella descritta in questo articolo, non c’è dubbio, bisognerebbe farsela in casa, recuperando la sovranità monetaria (anche se qualche stolto la confonde, erroneamente, col signoraggio) e lavorando alacremente per conto proprio come buoni artigiani di bottega, in modo da pagare con calma e sacrifici il proprio debito senza dover dare conto a nessuno. Argentina docet. A buon intenditor poche parole.  

La triste parabola dei futuristi: da nuovo centrodestra a vecchia Dc

Dovevano rifondare il PdL dopo averne raccolto i cocci. Ora sono ridotti a percentuali dello zero virgola e sperano in un Monti-bis per non sparire. Ecco come l'avventura dei finiani si è trasformata nell'ennesimo suicidio politico nel centrodestra

Tutto cominciò in un famoso congresso di fine aprile. Era il 2010, ed erano passate appena due settimane dalle elezioni regionali. Un trionfo per il centrodestra e per il suo leader, usciti incredibilmente vincitori dopo una campagna elettorale thriller, costellata da liste cancellate, crisi economica, guai giudiziari e gossippari del premier. Alla Sinistra il risultato aveva provocato uno psicodramma, e non solo per la sorprendente vittoria di Renata Polverini nel Lazio. Evidentemente, però, la delusione non si era consumata solo a sinistra, come si potè constatare nel congresso del PdL, in programma tra il 21 e il 23 aprile.
Fini, in quanto presidente della Camera, si era rifiutato di fare campagna elettorale e di dare una mano al partito dopo lo scandalo della lista del PdL cancellata nel Lazio. I suoi rapporti con Berlusconi erano pessimi ormai da un anno, anche a causa delle continue sortite del presidente della Camera, spesso critico nei confronti del governo malgrado l'innegabile consenso di cui quest'ultimo godeva nel paese, e che i risultati delle "regionali" avevano confermato una volta di più. La scelta di Fini di chiamarsi fuori dalla campagna elettorale aveva forse dato il colpo di grazia ad un rapporto ormai frantumato.
Ma tant'è: il centrodestra aveva trionfato, il PdL veleggiava vicino al 40 per cento, Berlusconi, nonostante gli imbarazzanti scoop giornalistici sulla sua vita privata (altri ne sarebbero arrivati, e anche peggiori), era di fatto inattaccabile. Che ci potesse essere uno scontro tra i finiani e la maggioranza del partito era prevedibile, ma che Fini facesse il kamikaze francamente no. Fu quello che invece avvenne.
Comincò lì, da quel "che fai, mi cacci?", il duplice omicidio politico di Fini. Quello, inspiegabile e senza senso, del governo, che da quel momento iniziò a navigare in acque agitate, sempre sul filo di un naufragio molte volte sfiorato; e quello, assurdo e imprevedibile, di se stesso e della destra italiana, letteralmente immolata sull'altare delle ambizioni personali di un uomo che improvvisamente perse la bussola, quando non addirittura il senno.
All'inizio, a dire il vero, non sembrò così. Anzi, Fini diede a molti l'impressione di essere davvero l'uomo giusto per dare avvio ad una nuova stagione. Aveva dalla sua numeri non trascurabili e anche l'appoggio dei giornali della sinistra, che cominciò a coccolarlo nella speranza di usarlo come strumento per liberarsi di Berlusconi. I finiani si unirono in un nuovo soggetto politico, "Futuro e Libertà per l'Italia", e i consensi attorno alla nuova creatura cominciarono a crescere. Il feeling con la sinistra, tuttavia, era tanto effimero quanto ridicolo, e persino giornalisti di grande spessore come Giovanni Floris ed Enrico Mentana toccarono il punto più basso della loro carriera con le numerose interviste e "ospitate" di Fini e del suo fido Bocchino, trattati con una a riverenza tratti imbarazzante.
La parabola dei finiani, comunque, cominciò a scendere molto presto. Fallito infatti il tentativo di abbattere il governo Berlusconi (voto di fiducia del 13 dicembre 2010), Fini non potè fare altro che passare all'opposizione alleandosi con i centristi, ovvero con l'ex alleato di un tempo Casini, altro possibile erede dello scettro del centrodestra, ma autoeliminatosi con scelte politiche infelici e sfigatissime (praticamente un precursore di Gianfry).
Iniziava l'era del Terzo Polo, mentre Fli cominciava a crollare verso percentuali dello zero virgola, risultato al quale la meschina vicenda della casa di Montecarlo ha dato un contributo non irrilevante. I kapò dell'Ue, intanto, decidevano che il governo Berlusconi non faceva al caso loro e puntuale arrivava la caduta della maggioranza alla Camera, con il Cavaliere costretto a dimettersi. Fini and company, dal canto loro, non perdevano tempo per andare in ginocchio da Monti, il professore bocconiano scelto da Napolitano per traghettare il paese verso l'euro-salvezza, o euro-disgrazia, dipende dai punti di vista. Fini, in ogni caso, non potè fare altro che archiviare il suo progetto di rifondare il centrodestra. Un'idea, la sua, fallita sul nascere.


Il resto è storia recente. Fini-to nel dimenticatoio, e per giunta all'ombra di Casini ("il morto di tattica", cit. Bersani), Fini oggi è un protagonista secondario del Terzo Polo, coalizione che, pur volendo mantenere le distanze da Montezemolo, ha appena annunciato di puntare anche lei al Monti-bis. Dio ce ne scampi. Ma nel caso in cui questa eventualità dovesse verificarsi, è assai facile prevedere che Terzo Polo e Montezemolo saranno una cosa sola. Sarebbe fin troppo scontato, a questo punto, scomodare le solite dietrologie, del tipo che Fini è stato solo un burattino manovrato da altri più in alto di lui. Già, troppo facile, perché fin troppo evidente.
Riassumendo in poche parole l'avventura del nostro presidente della Camera, si può dire che Fini sia passato da futuro leader designato del centrodestra ad aspirante ricostruttore dello stesso. E da fuoriuscito incompreso ad accattone di qualche poltroncina. Una parabola veramente triste, la cui fine è stata sancita dall'episodio dei funerali di Rauti, dove per poco qualche gruppo di fascisti nostalgici (diciamo pure di quelli che lui non è riuscito a far "evolvere") non gli faceva la pelle.
E' stato l'uomo che stava modernizzando la destra, e che di sicuro ne ha permesso lo sdoganamento. Ha provato poi a rifondare il centrodestra, ma ha clamorosamente sbagliato il momento, anche se forse convinto da altri (interessati) ad agire in quel modo. La destra, invece, ne è uscita completamente sfasciata, mentre il destino di Fini è ormai quello di inseguire governi tecnici al servizio dell'euro-delirio, morendo praticamente da democristiano. Fine.

Ecco perché uscire dall'Euro sarebbe una liberazione

Non c'è toppa che tenga per coprire il buco dei conti pubblici, lo dicono tutti i numeri. Né si può affamare un popolo per pagare i debiti. Dal governo, inoltre, trapela una notizia a dir poco scioccante

 
Per quanto gran parte dell'opinione pubblica sia da sempre molto critica e diffidente nei confronti dell'euro-moneta, gli Italiani, oggi come oggi, non sarebbero pronti ad abbandonare l'Euro per tornare alla Lira. Ad una eventualità del genere, infatti, si guarda come ad un salto nel buio, con una paura alimentata soprattutto dagli organi di informazione. 
Non tutti gli economisti, però, sono concordi nel dire che il ritorno ad una moneta nazionale comporterebbe effetti disastrosi, anzi c'è chi sostiene il contrario. Vale a dire che, alla luce della situazione attuale, il sistema euro per noi è assolutamente deleterio e perciò uscirne sarebbe una totale liberazione. Cerchiamo di capire il perché.
Secondo gli ultimi dati forniti dall'Istat, il debito pubblico ha raggiunto il 126,1 per cento del Pil, nuovo record storico. Significa che se la nostra ricchezza equivale a 100 il debito è di 126. Già a marzo di quest'anno il rapporto era arrivato al 123 per cento, battendo il precedente record del 1995. Tutto ciò è dovuto al fatto che, se da un lato le entrate tributarie rimangono sostanzialmente stabili o al massimo aumentano di poco (più tasse, meno evasione, ma anche meno ricchezza da tassare), lasciando di fatto inalterato il debito complessivo nonostante i tagli alla spesa, dall'altro lato la ricchezza del paese (Pil, ovvero la somma dei redditi lordi dei cittadini) continua a dimunire inesorabilmente, il che causa anche un aumento della spesa pubblica per gli ammortizzatori sociali, annullando di fatto i tagli di cui sopra. Colpa della crisi, ovviamente, ma anche e soprattutto delle manovre finanziarie finalizzate (qui sta il paradosso) a recuperare soldi per ridurre il debito. Così il famoso 60 per cento di rapporto debito/pil chiesto dall'Ue è ormai pura utopia. Anzi, si allontana sempre di più anche l'obiettivo del 100 per cento.
Se si considera il fatto che i governi non hanno nessuna alternativa all'aumento delle tasse (riducendole ci vorrebbero infatti 7-10 anni per far tornare le entrate ai livelli attuali), e che in Europa le due paroline "stampare banconote" sono paraticamente bandite, dovrebbe essere evidente anche ai più sprovveduti in materia di economia che ormai il disperato tentativo dell'Italia di rimanere nel sistema-euro rischia di trasformarsi in un suicidio di massa, anche perché i sacrifici richiesti, nel prossimo futuro, potrebbero essere ancora più sanguinosi. Basta guardare cosa sta avvenendo in Grecia e Spagna.
                                       
Della Grecia conosciamo la disastrosa situazione che ha portato il paese ellenico al fallimento di fatto. Un po' meno si sa della Spagna, paese la cui espansione economica è stata fin troppo esaltata, addirittura indicata come modello da seguire. Una sciocchezza, visto che l'economia spagnola, presa nel suo complesso, nel momento di massimo splendore poteva essere paragonata al nostro Sud, salvo qualche eccezione. Comunque un confronto con gli iberici può essere utile. Ebbene: tralasciando il massacro di tagli e di tasse a cui gli amici spagnoli sono sottoposti da due anni, in Spagna, sempre da due anni, lo Stato non paga le tredicesime ai dipendenti pubblici. Avete letto bene: la tredicesima dei dipendenti pubblici viene trattenuta! Da due anni. Cari lettori, quando un governo arriva a prendere una decisione così estrema, significa che ormai ha raschiato il fondo del barile e che la toppa è troppo colorata per coprire il buco. Senza tredicesima è l’apocalisse dell’economia reale, sei al default di fatto e ti tengono in vita artificialmente.
Credete forse che l'Italia non dovrà ricorrere a misure come questa? Poveri illusi! Basta rileggere ciò che ho scritto sopra per rendersi conto che, continuando con l'attuale trend, arriveremo pari pari alla situazione spagnola, non appena l'economia del Nord sarà stata completamente spolpata a colpi di tasse. Non c'è scampo.
Non resta dunque che prendere esempio dall'Argentina. I nostri lontani cugini della Plata, un decennio fa, decisero di non pagare più i debiti: "Non possiamo affamare il popolo per pagare i creditori", disse il ministro Lavagna agli esterrefatti emissari del Fmi, i quali si sentirono dire che il pagamento del debito sarebbe stato dilazionato di 20 anni. Peraltro la situazione dell'Italia non è ancora così tragica come lo era quella argentina dell'epoca. Il nostro unico problema sarebbe infatti l'inflazione, non solo quella provocata dalla svalutazione (si stima il 30 per cento) della nuova Lira. Per risollevare l'economia lo Stato sarebbe anche costretto a spendere in deficit, coprendo quel disavanzo con l'emissione di nuova moneta in modo da non accumulare nuovo debito. Una medicina amara, però l'unica veramente efficace, perché permetterebbe di abbattere la disoccupazione. L'ideale sarebbe poter mettere in atto ricette simili rimanendo nell'Eurozona o, al limite, dopo un suo totale smantellamento. Ma è evidente a tutti che parlare di deficit ed inflazione in Europa significa mettersi sul piano della blasfemia. E oltretutto i parametri sono quelli che sono, di fatto irrangiungibili se non nel lungo periodo.    
Resta il dubbio se, per uscire dall'euro, oltre alle resistenze della nostra classe dirigente, dovremmo scontrarci anche con quelle dell'Ue e del Fmi, i quali potrebbero fare con noi quello che stanno facendo ora con Grecia e Spagna, obbligandoci a rimanere nell'euro solo perché le loro banche hanno le casse piene di titoli del nostro debito pubblico: un po' come se un creditore, per non perdere i soldi che il debitore gli deve, cercasse in tutti i modi di impedirne il fallimento. Non si dimentichi inoltre un altro dato fondamentale: se la moneta unica dovesse perdere un tassello dimostrerebbe ai mercati di non essere così irreversibile come tutti i leader dell'eurozona si affannano continuamente a dire. Uscito un paese, tutti gli altri sarebbero così in balia della speculazione, costretti a ripagare i loro titoli del debito pubblico a tassi da strozzinaggio. Ecco spiegata la tenacia con cui i governi italiano, greco, spagnolo, portoghese, irlandese si ostinano a tenere i loro paesi ancorati all'Euro. Subiscono certamente straordinarie pressioni esterne. E sono disposti a fare di tutto, anche l'indecente.
E' di qualche ora fa, infatti, una voce trapelata dalla Camera dei Deputati. Protagonista di un'agghiacciante dichiarazione il sottosegretario all'Economia Gianfranco Polillo, che ai giornalisti presenti ha confidato che "stiamo cercando di ridurre i consumi per dipendere meno dalle importazioni estere. Bisogna capire che l'Italia ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità". Ridurre i consumi, dunque, soprattutto quelli legati alle importazioni. Vivere secondo le proprie possibilità, sicuramente inferiori al tenore di vita degli ultimi decenni. Stando a queste parole, la contrazione dei consumi sarebbe voluta, non un effetto indesiderato. Stiamo andando a sbattere a tutta velocità. Chi aziona il freno?