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Castigat ridendo mores

Così l'Euro ci distruggerà

Disoccupazione e povertà crescono di mese in mese e il peggio deve ancora venire. Ma potrebbe essere evitato se la nostra politica ricominciasse ad agire nell'interesse dell'Italia

C'era una volta la quinta economia del mondo per prodotto interno lordo, quella dell'Italia, un paese con un debito pubblico molto elevato, ma con il risparmio privato più alto in Europa e un export senza eguali nel continente. Il tenore di vita degli abitanti di questa repubblica era fra i migliori al mondo, finché un giorno di circa vent'anni fa gli italiani furono costretti a cominciare un periodo di sacrifici: bisognava entrare in un sistema monetario di cui facevano parte nazioni con monete dotate di maggior potere d'acquisto rispetto alla Lira italiana. C'erano anche dei parametri da rispettare, in particolare il rapporto tra la ricchezza del Paese (Pil, ovvero la somma dei redditi lordi dei cittadini) e il debito dello Stato, anche perché gli accordi prevedevano sì una moneta unica, ma non un debito unico. Ognuno si teneva il suo e se lo pagava per conto proprio. La nuova moneta unica era fondata sul principio di stabilità: della moneta, del bilancio e dell'inflazione. 
L'Italia accettò la sfida: passando ad una moneta più forte decise di rinunciare alla competitività dei propri prodotti, già minacciata dal nuovissimo fenomeno della globalizzazione, in cambio di tassi di interesse più bassi che una moneta con un maggior potere d'acquisto avrebbe di certo garantito, alleggerendo in tal modo il pagamento del debito.
I sacrifici furono finalizzati a ridurre il rapporto debito/pil. Bisognava fare presto e di conseguenza la soluzione più immediata era una politica di tagli alla spesa pubblica e di aumento delle entrate tributarie. Meno spesa e più tasse, quindi, uno sforzo non da poco, accompagnato anche dalla (s)vendita di diverse aziende pubbliche, alcune delle quali in attivo. Va da sè che in questo quadro l'Italia dovette rinunciare quasi del tutto alla possibilità di gestire il bilancio pubblico in deficit, e di coprire il disavanzo (o una parte di esso) con l'emissione di nuova moneta. Nell'Europa unita, infatti, la parola "inflazione" doveva essere cancellata dai dizionari e non era ammessa neanche come rischio ipotetico. 
L'Italia, comunque, riuscì nell'impresa e nel gennaio del 2002 la nuova moneta unica europea entrò in corso.
Oggi, quasi 11 anni dopo, l'eurozona è entrata in una crisi senza via d'uscita e l'Italia, con il suo debito pubblico molto alto, è uno dei paesi che stanno pagando il prezzo più salato. La crisi è stata provocata da uno shock esterno (il crac del sistema finanziario statunitense) i cui effetti si sono rapidamente propagati in tutte le economie occidentali e non solo. E qui è emerso in tutta la sua drammaticità ciò che l'Euro davvero rappresenta: una trappola per la sovranità democratica e per le economie meno solide.
Tralasciando il fatto che gli italiani, con questa moneta, hanno avuto un pessimo rapporto fin dall'inizio, a causa della paradossale inflazione verificatasi per via di un cambio particolare e sfortunato, che ha fatto raddoppiare in pochi mesi i prezzi di una vasta gamma di prodotti (già, un paradosso mai visto prima, considerando che eravamo passati da una moneta debole a una moneta forte); al di là di questo dettaglio, dicevamo, il motivo per cui l'Euro è una trappola è un altro ed è legato al fatto che della stabilità (principio stupendo al quale tutti noi cerchiamo di ispirarci nella vita) ha fatto un vero e proprio culto. Per chi è entrato nell'Euro, infatti, è impensabile poter fare deficit, vale a dire avere entrate inferiori alle spese, anche per un breve periodo. Chi legge penserà: è logico che sia così. E invece no.
Già per un comune cittadino è quasi impossibile pensare di non poter fare mai un debito in tutta la propria vita, anche piccolo, figuriamoci per uno Stato. Anzi, è assolutamente indispensabile per uno Stato fare un po' di deficit di tanto in tanto. Il motivo è semplice: solo lo Stato può immettere ricchezza al netto nel contenitore dei cittadini privati, tra i quali la ricchezza circola in tondo, senza che nessuno ne crei di nuova. Solo lo Stato può farlo, aumentando la spesa a parità di entrate oppure - come sarebbe il caso di fare in questo momento - diminuendo le entrate (quindi il prelievo fiscale) a parità di spesa. In entrambi i casi il bilancio registrerebbe un disavanzo, ovviamente da fare per un breve periodo, il tempo necessario per dare ossigeno al circolo della ricchezza privata quando questo rallenta o si arresta lasciando molti cittadini in condizioni di difficoltà o di povertà.
C'è un altro fatto importante: non sempre lo Stato può coprire il disavanzo affidandosi solo al mercato privato. Vale a dire che lo Stato, a differenza di un privato cittadino indebitato, può coprire una parte dei propri debiti e degli interessi emettendo nuova moneta, correndo sì il rischio ipotetico dell'inflazione, ma con la certezza di poter rilanciare l'economia, perché è chiaro che un deficit prodotto, ad esempio, attraverso una riduzione delle tasse, favorisce una ripresa degli investimenti, del lavoro, dei consumi. I redditi crescono, cresce la ricchezza da tassare e quindi tornano ad aumentare le entrate tributarie. La possibilità di emettere nuova moneta senza il cambio con l'oro era stata una grande conquista degli Stati democratici, mai così sovrani come allora. Finché qualcuno non ha cominciato a tirare fuori la storia che il debito dello Stato è un qualcosa di molto pericoloso, quando invece i fatti dimostrano che un'economia con un buon tessuto produttivo può avere un collasso non a causa del debito dello Stato (ad esempio per Italia e Giappone il debito pubblico è stato un volano), ma per il debito privato, quello dei cittadini con le banche, come dimostra il caso della Spagna, il cui debito pubblico era invece molto contenuto.
A proposito di Spagna, veniamo finalmente al punto. I dati della Spagna oggi sono questi: disoccupazione al 25% (avete letto bene, roba da far venire la pelle d'oca), tagli e tasse a tutto spiano, tradicesima sospesa ai dipendenti pubblici, un grosso prestito già avuto dagli euro-partner e un altro sarà richiesto prossimamente al Fmi. Duole essere così pessimisti, ma non di pessimismo si tratta, bensì di realismo: la Spagna di oggi rappresenta la fotografia dell'Italia tra meno di dieci anni, se le condizioni per rimanere nell'Euro restano quelle attuali, ovvero un rapporto debito/pil inferiore al 100 per cento di fatto irrangiungibile per tutti i paesi mediterranei se non in un lontano futuro, un bilancio obbligatoriamente in pareggio, una moneta stabile come i macigni di Stonehenge.
Il motivo è presto detto: senza deficit lo Stato non può fare altro che avvitarsi su se stesso: sposta la ricchezza di qua per metterla di là, poi la toglie di qui per portarla di lì e così via, senza mai risolvere un tubo. La disoccupazione intanto aumenta, diminuiscono i consumi, aumentano le difficoltà delle aziende, si riduce la ricchezza complessiva e calano anche le entrate dello Stato, che per non accumulare nuovo debito (non quello "buono" di cui sopra, ma quello fatto per tappare le falle), anche perché così comanda l'Europa, è costretto ad aumentare le tasse, in una spirale senza fine. E se qualcuno vi dice che è necessaria la patrimoniale ridetegli in faccia, perché l'unico risultato che otterrebbe sarebbe una fuga oceanica di capitali e aziende all'estero, come già sta avvenendo in Francia. Se qualcun altro invece vi dice che bisogna vendere le ultime aziende pubbliche in attivo, mandatelo direttamente a quel paese, perché le aziende, pubbliche o private che siano, non si vendono se producono utili, a maggior ragione se appartengono alla collettività. Se qualcun altro ancora vi dice che i soldi si possono recuperare dall'evasione dategli una pacca di incoraggiamento sulla spalla, perché l'evasione va combattuta e con mezzi sempre più efficaci e duri, ma pretendere di cancellarla è come pretendere di eliminare la delinquenza dalla faccia della Terra. Ditegli anche che persino la Germania ha 160 miliardi di euro di evasione - pensa un po' - e che in Italia il settore privato vanta svariate decine di miliardi di crediti nei confronti di Stato e soprattutto Regioni, a dimostrazione aritmetica del fatto che l'evasione non è la gallina dalle uova d'oro che molti pensano.
Se infine qualcuno si straccia le vesti di fronte a voi se gli si prospetta l'ipotesi di mettere in discussione l'Euro, la stabilità della moneta, del bilancio e dell'inflazione, chiedetegli perché non se le straccia di fronte al dato di una disoccupazione all'11 per cento. Già che ci siete, se per caso vi risponde, riferite anche al sottoscritto, per il quale la questione è un vero enigma.
Cosa fare quindi, ora che non siamo più la quinta economia, il risparmio viene sempre più eroso pur rimanendo sempre uno dei più alti al mondo, l'export è andato a farsi benedire a causa soprattutto dell'Euro e solo in misura marginale della globalizzazione, gli interessi sul debito sono tornati a salire, facendo venire meno anche l'unico motivo per cui era valsa la pena entrare nella moneta unica?
Guardando il panorama politico cadono le braccia. Se la critica più "feroce" fatta all'Euro negli ultimi anni è quella espressa da Berlusconi ieri, pensa un po' come stiamo combinati. Un attacco, il suo, tardivo e minimalista, reso poi ancora più inconcludente dal livello della sua credibilità personale, del tutto azzerata. Peraltro ha detto cose ovvie: che lo spread è aumentato non tanto, o non solo a causa del rialzo dei tassi sul debito dell'Italia, ma anche per il contemporaneo abbassamento di quelli tedeschi; e che sarebbe giusto considerare non il debito pubblico, ma il debito aggregato, cioé la somma del debito dello Stato e del debito dei cittadini privati, cosa che ci farebbe all'improvviso diventare uno dei tre paesi più virtuosi al mondo, come spiegato in questo articolo del Sole 24ore. Sull'altra sponda politica non hanno avuto neanche l'intuito per cogliere la palla al balzo e far vedere che l'Italia assume per lo meno una posizione critica all'interno dell'Europa, una linea costruttiva certo, ma molto meno ossequiosa. Bersani invece si è affrettato a dichiarare che Berlusconi dice stupidaggini e chissà che non abbia anche chiamato la Merkel per scusarsi del fatto di avere un concittadino di cui si vergogna.
D'altra parte siamo in campagna elettorale, non è ancora adesso che Bersani dovrà affrontare il dramma di una disoccupazione quasi all'11 per cento e la tragedia di un fenomeno come la povertà, non nuovo in sè, ma certamente insolito dal punto di vista delle dimensioni. Con questi problemi dovrà vedersela quando sarà al governo, e non andremo lontano con le ricette suggerite dalla Merkel, da Van Rompuy, da kapò Schultz e da banchieri e multinazionali che li comandano a bacchetta.
La leggerezza con cui in Italia è stata perpetrata la vergogna dell'obbligo di pareggio di bilancio, dimostra senza ombra di dubbio che nessuno, nel Belpaese, ha abbastanza coraggio per mettere in discussione l'Euro, e nemmeno per ridiscuterne seriamente l'impianto, anche se ciò è indispensabile per salvarci dalla catastrofe. Dall'altra parte, nessuno in Europa è disposto a sacrificarsi più di tanto per gli altri, ad inglobarne il debito o ad accettare una svalutazione della moneta causata dai problemi altrui. Non ci resta quindi che sperare che l'Eurozona imploda. E gli occhi di chi spera sono puntati sulla Spagna e sulla Grecia.
 

Crisi Euro: e se per ripartire dovessimo prima indebitarci?

Ciò che sta accadendo oggi in Europa dimostrerebbe che la soluzione alla crisi, paradossalmente, sta nella sua principale causa: l'indebitamento. Apparentemente una bestemmia, ma forse è l'unico rimedio per rilanciare l'economia e poter poi ridurre il debito stesso
 
Ascoltando i dibattiti televisivi pre-elettorali si ha una diffusa percezione di affumicamento, soprattutto quando il tema della discussione è la crisi finanziaria dell’area Euro. Tanto il fumo, appunto, pochissimo l’arrosto, e in più la netta sensazione di ascoltare politici che non sanno di cosa parlano. O più probabilmente lo sanno, ma evitano di proporre soluzioni che vadano oltre quelle suggerite dall’euro bon ton.
Assodato che ormai le manovre improntate sul rigore non fanno diminuire il debito pubblico, tanto che quest’ultimo è tornato addirittura ad aumentare (troppo malridotta l’economia e sempre meno la ricchezza da tassare, mentre gli interessi sono tornati ai tempi della Lira), su questa crisi ho maturato un’idea che parte da un concetto tutt’altro che originale. Per uscirne, occorre abbassare le tasse, ovvero la fetta di ricchezza che il fisco si mangia affinché lo Stato possa effettuare tutte le spese necessarie. È un concetto universalmente condivisibile, anche perché l’unica alternativa sarebbe aumentare la spesa pubblica. In soldoni: o lo Stato lascia più denaro nelle tasche dei cittadini oppure lo regala – prendendolo o dai cittadini più ricchi o stampando moneta – sottoforma non solo di migliori servizi (non basterebbe), ma anche di impieghi pubblici, finanziamenti a fondo perduto, età pensionabile bassissima, spesa previdenziale molto generosa, etc. Credo che tutte le persone di buon senso propenderebbero per la prima ipotesi, ovvero un taglio significativo delle tasse, con una spesa pubblica, al limite, mantenuta stabile.
Non c’è bisogno di essere dei geni della matematica per capire che, riducendo in misura consistente la pressione fiscale senza contemporaneamente tagliare in maniera altrettanto consistente la spesa pubblica, il debito dello Stato aumenterebbe, almeno nell’immediato. È vero che nel giro di qualche anno, grazie alla riduzione delle tasse, tornerebbero a crescere gli investimenti, l’occupazione, i consumi, quindi la ricchezza da tassare, con un conseguente aumento delle entrate per lo Stato e dunque con una riduzione del debito. Questo è l’obiettivo finale. Tuttavia nell’immediato l’indebitamento crescerebbe, e anche di parecchio. Cosa fare quindi?

NO DEFICIT: MA È POSSIBILE?                                     Prima possibilità: evitare di indebitarsi. Come? Anche qui non c’è bisogno di essere un premio Nobel per l’economia per avere la risposta. Ovviamente è quanto mai opportuno continuare e, anzi, intensificare la lotta all’evasione. Tuttavia, fermo restando che non è possibile passare dal poliziotto di quartiere al finanziere di quartiere, e che quindi non è che possiamo vivere in uno stato di polizia fiscale, va detto che un recupero ancora più efficace dell’evasione non potrebbe mai compensare un taglio drastico delle tasse (chi sostiene il contrario ha bisogno di ricominciare con la matematica dalle elementari). Allora come evitare l’indebitamento? Una seconda opzione sarebbe quella di tagliare ulteriormente la spesa pubblica, però attenzione perché la questione è assai delicata e tutt’altro che scontata.
Ognuno di noi può constatare che di spese inutili, di sprechi pubblici anche sfacciati ce ne sono ancora parecchi e anche i professori al governo hanno fatto finta di non vederli. In compenso, però, sono state tagliate molte spese “utili” legate soprattutto ai servizi. Di conseguenza, non so quanto il dato finale potrebbe cambiare se i governi diventassero improvvisamente più giusti, tagliando con maggiore severità le spese inutili, ma salvaguardando la spesa pubblica “produttiva”.
 
LA SOLUZIONE CHE NON TI ASPETTI
Ecco quindi che bisogna prendere in considerazione l’ipotesi di non riuscire a compensare la diminuzione delle tasse, e di dover ricorrere così all’indebitamento. È noto che affermare un’idea del genere oggi, nel nostro continente, significa mettersi sul piano dell’eresia pura. Esiste, è vero, una scuola di pensiero che vede in un nuovo ricorso al deficit, l’unica via d’uscita dalla crisi, ma è largamente minoritaria, quando non addirittura sbeffeggiata. Fatto comprensibile, visto che la moneta unica è costruita principalmente sul concetto di “stabilità”, della moneta, dei bilanci e dell’inflazione. Detto questo, quale alternativa abbiamo al debito? Risposta: nessuna.
Il concetto spaventa, è naturale. Anche perché una volta fatto ripartire un trend di deficit, bisognerebbe fare obbligatoriamente qualcosa per finanziarlo. Se lo Stato incassa 100 e spende 115, i 15 mancanti li deve pur trovare da qualche parte. Come tutti sanno, l’unico strumento ad oggi conosciuto sono i titoli del debito pubblico. In pratica lo Stato vende le proprie “azioni” ad acquirenti privati, i quali alla scadenza di quei titoli (per esempio dieci anni) riscuotono i soldi inizialmente investiti più un interesse. Lo Stato ci perde, ovviamente, e il debito complessivo aumenta, però almeno si dispone della liquidità necessaria per far fronte agli impegni di spesa. E se gli interessi sono contenuti si può anche sperare di riuscire, attraverso politiche mirate, a ridurre il debito senza che il pagamento degli interessi vanifichi questo sforzo. Sappiamo tutti, però, che le cose da noi e in tutta l’area Euro sono andate in maniera diversa, soprattutto perché gli interessi sul debito sono da strozzini (il famoso “spread” è legato proprio all’andamento degli interessi), e nemmeno l’Euro, come si pensò negli anni ’90 quando vi entrammo (anzi fu questo il motivo principale per cui vi entrammo, la convinzione che i tassi sarebbero stati stabilmente bassi) ha aiutato in tal senso.
 
QUELLA PAROLA CHE IN EUROPA NON SI PUÒ NEMMENO PRONUNCIARE
In conclusione, che fare? Rispondo con un’altra bestemmia: bisogna tornare alla politica italiana degli anni Settanta – primi anni Ottanta. Dev’essere cioè la banca centrale, quindi la banca dello Stato (o degli Stati), a garantire i titoli del debito pubblico, coprendo innanzitutto gli interessi e almeno una parte dei titoli di debito. Il tutto sarebbe finalizzato a spendere in deficit senza creare nuovo debito. Sembrerebbe tutto facile, ma c’è un problema non di poco conto: dove prende i soldi la banca centrale? Indovinate: li deve stampare, e adesso le bestemmie diventano tre, sto proprio esagerando. È risaputo, infatti, qual è la possibile conseguenza quando uno Stato stampa moneta per far fronte al deficit, come si faceva prima dell’Euro e come di tanto in tanto fanno gli Usa oggi: si chiama inflazione, una parola che in Europa è vietato persino pronunciare.
Il diavolo però non è così brutto quanto lo si dipinge, anche se qualcuno lo dipinge brutto apposta per mettere paura. Premesso infatti che la svalutazione della moneta non ha come conseguenza automatica l’inflazione (nel ’92 svalutammo la Lira del 20% e l’inflazione rimase ferma) e premesso anche che la globalizzazione induce tutte le imprese dei paesi occidentali a contenere l’aumento dei prezzi per non perdere ulteriore competitività (ne hanno persa già a iosa), non è comunque un’eresia preferire un’inflazione temporaneamente al 7-8, persino al 10 per cento con una disoccupazione al 3-4 per cento, piuttosto che avere un’inflazione al 3 per cento come oggi, ma con un’economia al collasso perché abbiamo un 10-11 per cento di disoccupati. È vero che nel breve periodo di inflazione per i redditi bassi non ci sarebbe alcun vantaggio, dal momento che il minor prelievo fiscale sarebbe quasi del tutto vanificato dalla perdita di potere d’acquisto (in pratica un’altra tassa), ma i posti di lavoro in più darebbero all’economia uno slancio che non si vede più da decenni, con tassi di crescita abbastanza elevati. Non dimentichiamo poi che l’inflazione favorisce chi ha un debito, per esempio un mutuo, che grazie alla svalutazione perde valore.
A questo va aggiunto che molti esperti ritengono che l’inflazione sia uno spauracchio agitato spesso a sproposito, perché come spiegato prima non sempre questa è direttamente proporzionale alla svalutazione della moneta, anzi esperienze passate dimostrano che l’inflazione può rimanere sotto controllo anche con una moneta svalutata, specie se ciò avviene solo per un breve periodo. Da notare, infine, che un aumento della produzione e quindi dell'offerta, parallelo all'aumento di moneta circolante, attenua la crescita dell'inflazione e in teoria potrebbe addirittura annullarla.
                                                      EURO DUBBIO
Possibilità che delle proposte di cambiamento così radicali possano farsi largo nell’Europa di oggi? Zero, utopia pura. Nell’Europa unita non esiste nessunissima possibilità, anche perché l'Euro è emesso sì dalla Bce, ma ad uso e consumo dei mercati di capitali privati, da cui poi i singoli Stati devono comprarlo. Una politica come quella descritta in questo articolo, non c’è dubbio, bisognerebbe farsela in casa, recuperando la sovranità monetaria (anche se qualche stolto la confonde, erroneamente, col signoraggio) e lavorando alacremente per conto proprio come buoni artigiani di bottega, in modo da pagare con calma e sacrifici il proprio debito senza dover dare conto a nessuno. Argentina docet. A buon intenditor poche parole.  

La triste parabola dei futuristi: da nuovo centrodestra a vecchia Dc

Dovevano rifondare il PdL dopo averne raccolto i cocci. Ora sono ridotti a percentuali dello zero virgola e sperano in un Monti-bis per non sparire. Ecco come l'avventura dei finiani si è trasformata nell'ennesimo suicidio politico nel centrodestra

Tutto cominciò in un famoso congresso di fine aprile. Era il 2010, ed erano passate appena due settimane dalle elezioni regionali. Un trionfo per il centrodestra e per il suo leader, usciti incredibilmente vincitori dopo una campagna elettorale thriller, costellata da liste cancellate, crisi economica, guai giudiziari e gossippari del premier. Alla Sinistra il risultato aveva provocato uno psicodramma, e non solo per la sorprendente vittoria di Renata Polverini nel Lazio. Evidentemente, però, la delusione non si era consumata solo a sinistra, come si potè constatare nel congresso del PdL, in programma tra il 21 e il 23 aprile.
Fini, in quanto presidente della Camera, si era rifiutato di fare campagna elettorale e di dare una mano al partito dopo lo scandalo della lista del PdL cancellata nel Lazio. I suoi rapporti con Berlusconi erano pessimi ormai da un anno, anche a causa delle continue sortite del presidente della Camera, spesso critico nei confronti del governo malgrado l'innegabile consenso di cui quest'ultimo godeva nel paese, e che i risultati delle "regionali" avevano confermato una volta di più. La scelta di Fini di chiamarsi fuori dalla campagna elettorale aveva forse dato il colpo di grazia ad un rapporto ormai frantumato.
Ma tant'è: il centrodestra aveva trionfato, il PdL veleggiava vicino al 40 per cento, Berlusconi, nonostante gli imbarazzanti scoop giornalistici sulla sua vita privata (altri ne sarebbero arrivati, e anche peggiori), era di fatto inattaccabile. Che ci potesse essere uno scontro tra i finiani e la maggioranza del partito era prevedibile, ma che Fini facesse il kamikaze francamente no. Fu quello che invece avvenne.
Comincò lì, da quel "che fai, mi cacci?", il duplice omicidio politico di Fini. Quello, inspiegabile e senza senso, del governo, che da quel momento iniziò a navigare in acque agitate, sempre sul filo di un naufragio molte volte sfiorato; e quello, assurdo e imprevedibile, di se stesso e della destra italiana, letteralmente immolata sull'altare delle ambizioni personali di un uomo che improvvisamente perse la bussola, quando non addirittura il senno.
All'inizio, a dire il vero, non sembrò così. Anzi, Fini diede a molti l'impressione di essere davvero l'uomo giusto per dare avvio ad una nuova stagione. Aveva dalla sua numeri non trascurabili e anche l'appoggio dei giornali della sinistra, che cominciò a coccolarlo nella speranza di usarlo come strumento per liberarsi di Berlusconi. I finiani si unirono in un nuovo soggetto politico, "Futuro e Libertà per l'Italia", e i consensi attorno alla nuova creatura cominciarono a crescere. Il feeling con la sinistra, tuttavia, era tanto effimero quanto ridicolo, e persino giornalisti di grande spessore come Giovanni Floris ed Enrico Mentana toccarono il punto più basso della loro carriera con le numerose interviste e "ospitate" di Fini e del suo fido Bocchino, trattati con una a riverenza tratti imbarazzante.
La parabola dei finiani, comunque, cominciò a scendere molto presto. Fallito infatti il tentativo di abbattere il governo Berlusconi (voto di fiducia del 13 dicembre 2010), Fini non potè fare altro che passare all'opposizione alleandosi con i centristi, ovvero con l'ex alleato di un tempo Casini, altro possibile erede dello scettro del centrodestra, ma autoeliminatosi con scelte politiche infelici e sfigatissime (praticamente un precursore di Gianfry).
Iniziava l'era del Terzo Polo, mentre Fli cominciava a crollare verso percentuali dello zero virgola, risultato al quale la meschina vicenda della casa di Montecarlo ha dato un contributo non irrilevante. I kapò dell'Ue, intanto, decidevano che il governo Berlusconi non faceva al caso loro e puntuale arrivava la caduta della maggioranza alla Camera, con il Cavaliere costretto a dimettersi. Fini and company, dal canto loro, non perdevano tempo per andare in ginocchio da Monti, il professore bocconiano scelto da Napolitano per traghettare il paese verso l'euro-salvezza, o euro-disgrazia, dipende dai punti di vista. Fini, in ogni caso, non potè fare altro che archiviare il suo progetto di rifondare il centrodestra. Un'idea, la sua, fallita sul nascere.


Il resto è storia recente. Fini-to nel dimenticatoio, e per giunta all'ombra di Casini ("il morto di tattica", cit. Bersani), Fini oggi è un protagonista secondario del Terzo Polo, coalizione che, pur volendo mantenere le distanze da Montezemolo, ha appena annunciato di puntare anche lei al Monti-bis. Dio ce ne scampi. Ma nel caso in cui questa eventualità dovesse verificarsi, è assai facile prevedere che Terzo Polo e Montezemolo saranno una cosa sola. Sarebbe fin troppo scontato, a questo punto, scomodare le solite dietrologie, del tipo che Fini è stato solo un burattino manovrato da altri più in alto di lui. Già, troppo facile, perché fin troppo evidente.
Riassumendo in poche parole l'avventura del nostro presidente della Camera, si può dire che Fini sia passato da futuro leader designato del centrodestra ad aspirante ricostruttore dello stesso. E da fuoriuscito incompreso ad accattone di qualche poltroncina. Una parabola veramente triste, la cui fine è stata sancita dall'episodio dei funerali di Rauti, dove per poco qualche gruppo di fascisti nostalgici (diciamo pure di quelli che lui non è riuscito a far "evolvere") non gli faceva la pelle.
E' stato l'uomo che stava modernizzando la destra, e che di sicuro ne ha permesso lo sdoganamento. Ha provato poi a rifondare il centrodestra, ma ha clamorosamente sbagliato il momento, anche se forse convinto da altri (interessati) ad agire in quel modo. La destra, invece, ne è uscita completamente sfasciata, mentre il destino di Fini è ormai quello di inseguire governi tecnici al servizio dell'euro-delirio, morendo praticamente da democristiano. Fine.

Ecco perché uscire dall'Euro sarebbe una liberazione

Non c'è toppa che tenga per coprire il buco dei conti pubblici, lo dicono tutti i numeri. Né si può affamare un popolo per pagare i debiti. Dal governo, inoltre, trapela una notizia a dir poco scioccante

 
Per quanto gran parte dell'opinione pubblica sia da sempre molto critica e diffidente nei confronti dell'euro-moneta, gli Italiani, oggi come oggi, non sarebbero pronti ad abbandonare l'Euro per tornare alla Lira. Ad una eventualità del genere, infatti, si guarda come ad un salto nel buio, con una paura alimentata soprattutto dagli organi di informazione. 
Non tutti gli economisti, però, sono concordi nel dire che il ritorno ad una moneta nazionale comporterebbe effetti disastrosi, anzi c'è chi sostiene il contrario. Vale a dire che, alla luce della situazione attuale, il sistema euro per noi è assolutamente deleterio e perciò uscirne sarebbe una totale liberazione. Cerchiamo di capire il perché.
Secondo gli ultimi dati forniti dall'Istat, il debito pubblico ha raggiunto il 126,1 per cento del Pil, nuovo record storico. Significa che se la nostra ricchezza equivale a 100 il debito è di 126. Già a marzo di quest'anno il rapporto era arrivato al 123 per cento, battendo il precedente record del 1995. Tutto ciò è dovuto al fatto che, se da un lato le entrate tributarie rimangono sostanzialmente stabili o al massimo aumentano di poco (più tasse, meno evasione, ma anche meno ricchezza da tassare), lasciando di fatto inalterato il debito complessivo nonostante i tagli alla spesa, dall'altro lato la ricchezza del paese (Pil, ovvero la somma dei redditi lordi dei cittadini) continua a dimunire inesorabilmente, il che causa anche un aumento della spesa pubblica per gli ammortizzatori sociali, annullando di fatto i tagli di cui sopra. Colpa della crisi, ovviamente, ma anche e soprattutto delle manovre finanziarie finalizzate (qui sta il paradosso) a recuperare soldi per ridurre il debito. Così il famoso 60 per cento di rapporto debito/pil chiesto dall'Ue è ormai pura utopia. Anzi, si allontana sempre di più anche l'obiettivo del 100 per cento.
Se si considera il fatto che i governi non hanno nessuna alternativa all'aumento delle tasse (riducendole ci vorrebbero infatti 7-10 anni per far tornare le entrate ai livelli attuali), e che in Europa le due paroline "stampare banconote" sono paraticamente bandite, dovrebbe essere evidente anche ai più sprovveduti in materia di economia che ormai il disperato tentativo dell'Italia di rimanere nel sistema-euro rischia di trasformarsi in un suicidio di massa, anche perché i sacrifici richiesti, nel prossimo futuro, potrebbero essere ancora più sanguinosi. Basta guardare cosa sta avvenendo in Grecia e Spagna.
                                       
Della Grecia conosciamo la disastrosa situazione che ha portato il paese ellenico al fallimento di fatto. Un po' meno si sa della Spagna, paese la cui espansione economica è stata fin troppo esaltata, addirittura indicata come modello da seguire. Una sciocchezza, visto che l'economia spagnola, presa nel suo complesso, nel momento di massimo splendore poteva essere paragonata al nostro Sud, salvo qualche eccezione. Comunque un confronto con gli iberici può essere utile. Ebbene: tralasciando il massacro di tagli e di tasse a cui gli amici spagnoli sono sottoposti da due anni, in Spagna, sempre da due anni, lo Stato non paga le tredicesime ai dipendenti pubblici. Avete letto bene: la tredicesima dei dipendenti pubblici viene trattenuta! Da due anni. Cari lettori, quando un governo arriva a prendere una decisione così estrema, significa che ormai ha raschiato il fondo del barile e che la toppa è troppo colorata per coprire il buco. Senza tredicesima è l’apocalisse dell’economia reale, sei al default di fatto e ti tengono in vita artificialmente.
Credete forse che l'Italia non dovrà ricorrere a misure come questa? Poveri illusi! Basta rileggere ciò che ho scritto sopra per rendersi conto che, continuando con l'attuale trend, arriveremo pari pari alla situazione spagnola, non appena l'economia del Nord sarà stata completamente spolpata a colpi di tasse. Non c'è scampo.
Non resta dunque che prendere esempio dall'Argentina. I nostri lontani cugini della Plata, un decennio fa, decisero di non pagare più i debiti: "Non possiamo affamare il popolo per pagare i creditori", disse il ministro Lavagna agli esterrefatti emissari del Fmi, i quali si sentirono dire che il pagamento del debito sarebbe stato dilazionato di 20 anni. Peraltro la situazione dell'Italia non è ancora così tragica come lo era quella argentina dell'epoca. Il nostro unico problema sarebbe infatti l'inflazione, non solo quella provocata dalla svalutazione (si stima il 30 per cento) della nuova Lira. Per risollevare l'economia lo Stato sarebbe anche costretto a spendere in deficit, coprendo quel disavanzo con l'emissione di nuova moneta in modo da non accumulare nuovo debito. Una medicina amara, però l'unica veramente efficace, perché permetterebbe di abbattere la disoccupazione. L'ideale sarebbe poter mettere in atto ricette simili rimanendo nell'Eurozona o, al limite, dopo un suo totale smantellamento. Ma è evidente a tutti che parlare di deficit ed inflazione in Europa significa mettersi sul piano della blasfemia. E oltretutto i parametri sono quelli che sono, di fatto irrangiungibili se non nel lungo periodo.    
Resta il dubbio se, per uscire dall'euro, oltre alle resistenze della nostra classe dirigente, dovremmo scontrarci anche con quelle dell'Ue e del Fmi, i quali potrebbero fare con noi quello che stanno facendo ora con Grecia e Spagna, obbligandoci a rimanere nell'euro solo perché le loro banche hanno le casse piene di titoli del nostro debito pubblico: un po' come se un creditore, per non perdere i soldi che il debitore gli deve, cercasse in tutti i modi di impedirne il fallimento. Non si dimentichi inoltre un altro dato fondamentale: se la moneta unica dovesse perdere un tassello dimostrerebbe ai mercati di non essere così irreversibile come tutti i leader dell'eurozona si affannano continuamente a dire. Uscito un paese, tutti gli altri sarebbero così in balia della speculazione, costretti a ripagare i loro titoli del debito pubblico a tassi da strozzinaggio. Ecco spiegata la tenacia con cui i governi italiano, greco, spagnolo, portoghese, irlandese si ostinano a tenere i loro paesi ancorati all'Euro. Subiscono certamente straordinarie pressioni esterne. E sono disposti a fare di tutto, anche l'indecente.
E' di qualche ora fa, infatti, una voce trapelata dalla Camera dei Deputati. Protagonista di un'agghiacciante dichiarazione il sottosegretario all'Economia Gianfranco Polillo, che ai giornalisti presenti ha confidato che "stiamo cercando di ridurre i consumi per dipendere meno dalle importazioni estere. Bisogna capire che l'Italia ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità". Ridurre i consumi, dunque, soprattutto quelli legati alle importazioni. Vivere secondo le proprie possibilità, sicuramente inferiori al tenore di vita degli ultimi decenni. Stando a queste parole, la contrazione dei consumi sarebbe voluta, non un effetto indesiderato. Stiamo andando a sbattere a tutta velocità. Chi aziona il freno?         
 

Ecco la soluzione al mistero di Casini

L'allontanamento da Berlusconi era comprensibile, ma ora che il PdL si sta liquefacendo, perché Pierferdi continua a rimanere attaccato alle sottane della sinistra, anche a costo di allearsi con Vendola? Un vero enigma. Che finalmente è stato risolto

Da molto tempo mi pongo una domanda su una questione che per me è un vero enigma. La domanda è questa: perché Casini prima e Fini poi mollano il centrodestra e cominciano ad amoreggiare con la sinistra? Ma soprattutto, perché perseverano anche di fronte alla possibilità di raccogliere il testimone di un Berlusconi ormai quasi ritiratosi a vita privata?
 
Soprattutto Casini, sembra disposto ad andare ancora da solo o ad allearsi persino con Vendola pur di non tornare nel centrodestra.

Ed ecco allora che quando ormai non credevo più nella possibilità di risolvere l'arcano, ho ricevuto un'illuminazione folgorante, tanto che mi sono sentito come Archimede quando scoprì la legge del punto di galleggiamento dei corpi: Eureka!

La soluzione era lì da anni, davanti ai miei occhi, di una semplicità elementare, quasi ovvia. L'illuminazione è arrivata quando ho saputo di un'inchiesta dell'Espresso in cui si "rivela" che la famosa casa di Montecarlo donata da una nobildonna ad Alleanza Nazionale e di cui il cognato di Fini si sarebbe appropriato, è stata acquistata proprio da Giancarlo Tulliani, il cognato appunto, il che ha confermato quanto già si sapeva, ma che non aveva comportato nessuna conseguenza rilevante, né penale né politica, per l’ex leader di An. Quindi mi sono detto: la sinistra non corteggia più Fini, anzi questa inchiesta dell’Espresso sancisce ufficialmente che Fini ai rossi non serve più. Niente più trattamenti giornalistici particolari per lui, e forse ora arriveranno anche nuove grane giudiziarie.

Cosa c’entra Casini? Beh, a questo punto non bisogna essere dei geni per capire che, quanto più sta lontano da Berlusconi e in generale dal centrodestra, tanto più Pierferdi sarà al riparo da eventuali inchieste giornalistiche e giudiziarie, che in Italia si sa, molto spesso, sono un po’ la stessa cosa. Per quanto Casini sia conosciuto come uomo di specchiata moralità, alla luce dei precedenti nella sua area politica la prudenza non è mai troppa.
Eureka!


Sulla scuola Profumo molto peggio della Gelmini. Ma nessuno lo sa

Non bastasse il concorso per "quattro gatti" dal sapore vagamente elettorale, ora la proposta di aumentare le ore di lezione da 18 a 24 potrebbe tagliare le gambe a chi ha investito sull'abilitazione. E intanto i precari, al momento, non hanno neanche diritto alle ferie!

Per chi non se ne fosse accorto, sulla scuola si è avuta la conferma di quanto a destra siano politicamente dei polli. E' da sempre, infatti, un classico della destra italiana (quella vera e propria come quella democristiana) sbattere in faccia ai cittadini soluzioni drastiche per risolvere problemi atavici, senza giri di parole e senza leggine fatte nottetempo in barba a quanto promesso di giorno. Questione di cultura, di mentalità, forse anche di dilettantismo politico.
Così, se non fosse per le timide proteste di ieri contro il concorso e contro qualche generico taglio, il ministro Profumo passerebbe quasi per il salvatore della scuola, e con lui ovviamente il governo di cui è membro. Tutto l'opposto, insomma, della scandalosa Gelmini, la famigerata ministra dell'Istruzione dell'ultimo governo Berlusconi, colpevole di aver fatto piombare la scuola (o meglio, il personale, perché la scuola ormai sono gli insegnanti, dei problemi degli alunni non gliene frega niente a nessuno) nella catastrofe.
Veniamo al punto. Partiamo dal concorso, una delle prese in giro più colossali che si ricordino, una vera barzelletta. Un concorso nella scuola per 11 mila e 800 persone non si era mai sentito prima. E' stato rappresentato come la porta del paradiso per tutti i giovani e meno giovani che aspirano ad avere un posto di insegnante. Ma d'altra parte pochi sanno che 10 mila posti è il contingente che mediamente entra in ruolo ogni anno attraverso le graduatorie. Intanto nell'opinione pubblica è passata comunque l'idea di un governo che finalmente apre le porte della scuola a nuovi, giovani insegnanti. Addio precariato!
In realtà, basterebbe guardare i posti disponibili per ogni singola classe di concorso nelle varie regioni, per capire che ci troviamo di fronte al più classico dei casi di fumo negli occhi finalizzato a strappare qualche voto in più. Fa eccezione solo la scuola primaria, dove in effetti i posti messi a concorso sono numerosi. Qualcuno obietterà che il ministro ha annunciato che i concorsi verrano banditi con cadenza biennale o triennale, il che vuol dire che d'ora in avanti i nuovi insegnanti saranno reclutati per metà attraverso concorsi e i restanti dalle graduatorie di merito. Fantastico! Però: a) per un'opportunità in più che viene offerta a chi senza concorso non avrebbe mai un lavoro a tempo indeterminato, se ne toglie una a chi è in graduatoria da anni, in attesa di quel posto; b) non è molto meritocratico mettere sullo stesso piano aspiranti con esperienza nella scuola anche decennale o pluridecennale, e aspiranti con pochi o senza nessun giorno di insegnamento; c) ben sapendo che un conto sono le promesse, un altro i fatti, siamo sicuri che questo concorsino non sia, oltre che il primo dopo tanti anni, anche l'ultimo?
Capitolo tirocinio, meglio conosciuto come Tfa. Duole il cuore dare questa triste notizia a tanti giovani che coltivano la speranza di insegnare, anche solo come precari, una volta conseguito questo titolo abilitante per il quale stanno concorrendo. La notizia è questa: in una bozza di legge che dovrebbe essere presentata prossimamente in Consiglio dei Ministri, è previsto che il carico settimanale di ore di lezione, per gli insegnanti delle medie e delle superiori, passi da 18 a 24. Gli obiettivi di un tale provvedimento sarebbero due: il primo è quello di far coprire agli insegnanti anche i famosi "spezzoni" che inevitabilmente "avanzano" proprio a causa del fatto che nessuno di loro (tranne casi eccezionali) può avere più di 18 ore settimanali di lezione; il secondo è quello di effettuare in modo più economico, cioè senza spese aggiuntive per la scuola e per il ministero, le sostituzioni per malattie e/o ferie.
Premesso che chi scrive è da sempre fautore di una soluzione del genere, anche contro i propri interessi, perché la ritiene giusta e sacrosanta, sorge però un gigantesco interrogativo: se tutti i docenti svolgeranno 6 ore settimanali in più di lezione, che ne sarà di quelli che aspettano proprio le malattie o gli spezzoni per avere un incarico? Risposta logica: non avranno nessun incarico, in pratica si attaccano al famoso tram. Meraviglioso! Ma allora perché illuderli con il tirocinio formativo abilitante, presentato anche questo come la porta del paradiso? E che nessuno venga a dire che il Tfa lo aveva previsto la Gelmini, altrimenti una risata in faccia non gliela leva nessuno. Da quando seguo la politica, ricordo più provvedimenti cancellati (perché attuati dal governo precedente) che provvedimenti nuovi. Per cui evitiamo di prenderci in giro tra di noi. La speranza è che la bozza rimanga tale (come successo tantissime volte in passato), il che scongiurerebbe le conseguenze che vengono illustrate in questo articolo pubblicato sul sito orrizzontescuola.it.
Concludiamo con una chicca. In queste prime settimane di scuola molti insegnanti precari hanno fatto una scoperta agghiacciante: in pratica, ai malcapitati, non spetta nessun giorno di ferie retribuite. Voi direte: ma una cosa del genere ci riporta alla Sicilia di Verga, a Rosso Malpelo o ai Malavoglia! E invece no: succede anche nell'Italia del 2012, quella schiava del debito pubblico e delle Manovre finanziarie imposte dall'Unione Europea. Questa estate era stato reso noto che da quest'anno, agli insegnanti come a tutti gli altri dipendenti pubblici che avevano questo privilegio, non sarebbero state retribuite le ferie non godute. La cosa, per quanto assurda per i docenti (i quali, per ovvi motivi, non possono usufruire di tutti e 29 i canonici giorni di ferie annuali), era passata come un sacrificio da fare sull'altare della crisi. 
Senonché ora è saltato fuori che in realtà gli insegnanti non possono chiedere nessun giorno di ferie durante l'anno (se non, ovviamente, per motivi quali lutti, matrimoni etc.), perché non verrà loro retribuito. I docenti di ruolo sfrutteranno il monte ferie nei mesi estivi, mentre quelli con contratto in scadenza il 30 giugno o al termine delle attività didattiche si attaccheranno (ci risiamo) al famoso tram di cui sopra. Il tutto perché l'intenzione del governo è quella di ridurre al minimo, se non a zero, tutte le spese legate alle ferie, non solo quindi quelle non godute, ma anche quelle chieste ed eventualmente ottenute. In realtà la cosa, oltre che paradossale, è anche assai pasticciata e forse impraticabile, per cui se ne vedranno ancora delle belle. La speranza dei precari (i quali in questo caso possono attribuire al ministro solo la complicità di un provvedimento che in realtà riguarda la Funzione pubblica) è che la proverbiale capacità dei sindacati di buttarla in caciara abbia successo, tanto più che siamo ormai in piena campagna elettorale.
Morale della favola, la scuola con i Monti boys è passata dalla padella alla brace, per quanto i giornali amici dei banchieri e i tg Rai si sforzino (invano) di farci credere l'esatto contrario. E cioè che la scuola sia passata, non già dalla brace alla padella, ma dalla tragica parentesi Gelmini alle irripetibili opportunità offerte a tutti dal governo Monti e dal ministro Profumo. A noi persone di buon senso, intanto, non resta che aspettare il tanto sospirato giorno in cui, nel discutere di scuola, l'oggetto principale del discorso saranno gli alunni, e non sempre gli insegnanti.           

Le tante manine segrete che spinsero Mani Pulite

L'inchiesta milanese prese l'avvio nell'Italia post Guerra Fredda, piena di personaggi e fatti oscuri. Tra cimici, furti, spiate e un'infinità di gialli


(Da due articoli pubblicati su Libero da Filippo Facci). "Mani pulite fu la classica palla di neve che rotolò lungo il pendio della Repubblica e s’ingigantì: si tratta di capire quale e quanta neve abbia caricato. Antonio Di Pietro era senz’altro un personaggio ambiguo e chiacchierato, sino all’inizio del 1992: negli anni Ottanta aveva lavorato per un’intelligence antiterrorismo legata a Carlo Alberto Dalla Chiesa (l’ex magistrato sul punto è ancor oggi reticente) e non si è mai capito come mai, nel 1984, pur risultando un magistrato, partì per i tropici e stese un rapporto sul ricercato internazionale Francesco Pazienza: informazioni che poi giunsero al Sismi e fecero scattare altre azioni del Sismi: tanto che l’informativa di Di Pietro, nella sentenza del processo sul Banco Ambrosiano, venne definita «irrituale» dal giudice.
Altre polemiche forse fuorvianti, si ricorderà, fioccarono quando spuntarono delle fotografie in cui Di Pietro figurava a cena col funzionario del Sisde Bruno Contrada (poco prima che l’arrestassero: siamo alla fine del 1992) in presenza anche di un responsabile della Kroll Secret Service, la più grande agenzia d’investigazione d’affari del mondo, la cosiddetta «Cia di Wall Strett». Ora, e ancora, queste testimonianze dell’ex ambasciatore Usa Reginald Bartholomew che ha lasciato intravedere un certo attivismo del suo omologo Peter Secchia attraverso il braccio del console di Milano Peter Semler, come raccontato da Maurizio Molinari su La Stampa. Da qui l’immagine di un Di Pietro che cerca di accreditarsi in ambasciata (e che chiacchiera e preannuncia) e che lascia intravedere concorsi della Cia circa la genesi di Mani pulite: un quadro che resta improbabile.          
Vero è che Di Pietro era un ambizioso chiacchierone che cercava di accreditarsi dappertutto: anche a Bergamo, in precedenza, era finito nei guai perché durante un dopocena si vantò pubblicamente del prossimo arresto di due importanti avvocati che aveva già indagato e messo sotto intercettazione telefonica: si chiamavano Aldo Algani ed Ernesto Tucci, e a Bergamo, da qualche parte, c’è ancora il fascicolo, si suppone archiviato.
Vero è, ancora, che Di Pietro fece qualche viaggio americano all’inizio di Mani pulite: ma non fu un segreto e le foto del soggiorno, all’epoca, furono pubblicate anche dal settimanale Epoca: si vedono e lui e Nando Dalla Chiesa che sbirciano il menù di un fast food.
Ma soprattutto resta vero, a due anni dalla caduta del muro di Berlino, che l’Italia stava diventando un casino vero ed era un crocevia di riequilibri e impazzimenti tra est e ovest. Tutti scenari internazionali che indubbiamente, più che dare origine all’inchiesta Mani Pulite, non ne impedirono la nascita come in passato sarebbe probabilmente accaduto. Certo, una forza di controllo come la Cia poteva limitarsi a sorvegliare e consigliare, e l’ipotesi che possa aver favorito ben altro - soffiate, indicazioni di conti esteri, dritte su nascondigli e latitanze - per ora restano congetture e altro non si può dire.
La neve che s’attaccò alla palla, da principio, era fatta di un po’ di tutto, un nevischio prettamente milanese e fatto di andreottismi forcaioli in salsa meneghina, di anatemi curial-politici cari alla buonanima del cardinal Martini, del fuoco purificatore dei circoli tipo Società civile (frequentati da vari magistrati) e senza contare la Lega di Bossi.
Il che non toglie che l’inchiesta Mani pulite, intesa come procedimento contro Chiesa Mario, nacque in realtà non il fatidico 17 febbraio 1992, ma nel settembre 1991: ecco perché è stra-possibile che Di Pietro ne abbia ampiamente parlato a Peter Sempler ben prima appunto del febbraio 1992, circostanza che Di Pietro ha negato. Lo dimostra il fatto che la prima richiesta di proroga (senza la quale un’indagine, dopo sei mesi, dovrebbe essere chiusa) fu infatti del marzo 1992.
Il che non toglie, a sua volta, che nessun’ambasciata del mondo si sarebbe affidata a uno come Di Pietro. Come visto, era anche meno di un magistrato come un altro: era quantomeno chiacchierato e la sua vicinanza agli ambienti socialisti era nota. Il 2 dicembre 1991, quando l’intero corpo dei magistrati scioperò contro i pronunciamenti del capo dello Stato Francesco Cossiga, non meravigliò che tra gli otto che non aderirono ci fosse appunto anche Di Pietro, magistrato che l’Avanti! mandò immediatamente a intervistare in quanto – dissero al cronista, lo scrivente – «è amico nostro».
Su Libero abbiamo già raccontato di come i capi della Procura oltretutto fossero orientati senza tentennamenti a chiudere l’inchiesta chiedendo la direttissima: altro che abbattere la prima Repubblica. Le elezioni del 5 aprile 1992 - dopo le quali i magistrati si sentirono le mani più libere, come hanno ammesso - dovevano ancora deflagrare. Poi però lo fecero, e qualcosa accadde: anzi, aveva già cominciato ad accadere indipendentemente dall’inchiesta. Manine invisibili, servizi segreti deviati o meno, agenzie internazionali, la Cia, quello che volete: resta che il nostro Paese più di altri, dopo la fine della Guerra Fredda, era un porto di mare. Tra il 1989 e il 1996 accade di tutto."
 
Cimici, furti, spiate e bombe: quanti gialli nell'era del pool
 
"Nei primi anni di Mani pulite una trentina di case, uffici e studi vengono «visitati» non si sa da chi. Tra questi quelli dei parlamentari Arnaldo Forlani, Giorgio Postal (sottosegretario ai Servizi di sicurezza), Calogero Pumilia, Riccardo Misasi, Calogero Mannino, Guido Carli (a quest’ultimo rubano la chiave del suo studio privato al ministero del Tesoro), Gianni De Michelis, Carmelo Conte, Rino Formica, Margherita Boniver (nei giorni in cui presentava una relazione sul caso Moro), Carlo Vizzini, Alfredo Biondi, Giorgio Pisanò, Silvia Costa, Gianfranco Macis (della Commissione stragi, sostenne che cercassero alcuni documenti) e Giovanni Galloni (vicepresidente del Csm).
Il 9 gennaio 1991 Vincenzo Parisi, ascoltato dalla Commissione stragi, afferma che «vorrebbero fare dell’Italia una terra di nessuno». I Servizi segreti? «Escludo quelli di casa nostra». Il 19 giugno 1991, giorno in cui si apprende del trasferimento a Roma di Giovanni Falcone, viene visitato l’ufficio del ministro della Giustizia Claudio Martelli. Il 19 marzo 1992 viene visitato l’ufficio romano del ministro dell’Interno Vincenzo Scotti. Il 20 marzo 1992 viene visitato l’ufficio del sottosegretario alla Difesa Clemente Mastella. Nello stesso giorno viene visitato il monolocale del giornalista Michele Santoro.
Il 16 marzo 1992 l’agenzia Ansa trasmette d’intesa la notizia di una circolare del capo della polizia Vincenzo Parisi in cui si allertano i prefetti contro un fantomatico piano mirante a destabilizzare le istituzioni. «In tale ottica», spiega Parisi, «potrebbero inquadrarsi l’intrusione notturna negli archivi della Commissione parlamentare sul caso Bnl-Atlanta e la serie di furti e avvertimenti a danno di periti, consulenti, difensori, giornalisti, ufficiali di polizia giudiziaria connessi all’inchiesta condotta dal giudice Rosario Priore sul caso Ustica».
Dal giugno 1992 in poi circolò una quantità incredibile di verbali falsi, «veline» e dossier anonimi. Tra il 5 e il 6 luglio 1992, ignoti s’introducono nell’ufficio milanese di Bettino Craxi di piazza Duomo. Due porte blindate vengono superate senza scasso ma non viene asportato nulla. L’inquilina della porta accanto (peraltro, in quel periodo, intervistata da Piero Chiambretti), uscita nottetempo in pianerottolo per via di alcuni trambusti notturni, raccontò di essere stata così tranquillizzata: «Non si preoccupi, Pubblica sicurezza». Episodio analogo due giorni dopo al Club Turati di via Brera 18, dove Vittorio Craxi, figlio di Bettino, aveva un ufficio. Identiche modalità di scasso nell’ufficio di un’associazione di cui era presidente Anna Craxi. Visite notturne sono state denunciate anche da un legale di Craxi, Enzo Lo Giudice, e dall’ex segretaria Enza Tommaselli.
Il 5 febbraio 1993 una telefonata annuncia una bomba nell’ufficio romano di Stefania Craxi e Marco Bassetti. La Digos, intervenuta, non trova bombe ma, nell’appartamento adiacente, rinviene un calco della serratura dell’ufficio. Negli stessi giorni il deputato Dc Bruno Tabacci denuncia il ritrovamento di una microspia nella tasca laterale della sua automobile.
Nel marzo 1993 un inconoscibile personaggio offriva materiale (fotocopie di assegni della Cassa di Risparmio di Torino, tabulati, verbali di protesto) allo scopo di dimostrare che Giuseppe Davigo, padre di Piercamillo, avesse emesso assegni a vuoto per decine di milioni nel corso del 1992.
Il 16 aprile 1993 l’avvocato Giuseppe Lucibello scopre una microspia lungo il cavo telefonico del suo ufficio. Il 27 luglio 1993 bombe a Milano e a Roma. Ventidue minuti dopo la mezzanotte, Palazzo Chigi rimane telefonicamente isolato fino alle tre.
Nel dicembre 1993 e nel gennaio 1994 vengono visitati gli appartamenti romani di due deputati leghisti. L’onorevole Publio Fiori trova una «cimice» nella cornetta del telefono e un’altra viene trovata più tardi dai tecnici intervenuti per la bonifica.
Il 27 e 28 aprile 1995 vengono visitate le congregazioni di Piazza Pio XII e l’ufficio dell’arcivescovo argentino Jorge Mejia. Spariscono vari fascicoli riservati. Nell’agosto 1995 viene devastata e semidistrutta persino l’abitazione dello scrivente, come regolarmente denunciato. Vengono asportati alcuni documenti d’archivio. In un’altra visita del primo ottobre vengono asportati alcuni floppy-disk.
L’11 e 12 novembre 1995 vengono visitati gli uffici del dicastero del cardinale Joseph Ratzinger e messi a soqquadro. Vengono inoltre saccheggiati i cassetti del sottosegretario alla Congregazione monsignor Joseph Zlathansky (contenevano dossier in copia unica sulle carriere degli ecclesiastici). Il 29 novembre 1995 viene visitato l’appartamento del parlamentare Giuseppe Tatarella.
Il 4 febbraio 1996 viene visitato l’appartamento di Marco Pannella. Nello stesso periodo vengono visitati gli uffici di Willer Bordon e Clemente Mastella. Nel febbraio 1996 si apprende che erano stati intercettati per clonazione oltre duecento telefoni cellulari di politici, manager, giudici e giornalisti. Tra questi: i parlamentari Gianni Letta e Adolfo Urso, l’ex questore Achille Serra, alcuni dirigenti del Pds, della Rai, del Centro nazionale ricerca, della Consob, il giudice Michele Coiro, un generale della guardia di finanza e uno dei carabinieri, sette cronisti di La Repubblica e due dell’Ansa.
Il 21 marzo 1996 nell’appartamento del parlamentare Cosimo Ventucci irrompono quattro uomini vestiti come poliziotti. Lo immobilizzano, maltrattano la moglie e la figlia e spariscono senza asportare nulla. Il 6 luglio 1996 viene visitato l’appartamento del parlamentare Roberto Maroni."


Cambiamento radicale del sistema politico. O sarà astensione di massa

Chi crede di farci votare con questo sistema elettorale e con l’attuale distribuzione dei poteri si sbaglia di grosso. Dalla legge elettorale all’architettura istituzionale, ecco cosa si potrebbe fare affinché le prossime elezioni non siano l’ennesima presa in giro

Al di là delle dichiarazioni di principio circa l’importanza di andare a votare per esercitare un diritto fondamentale, devo dire in tutta franchezza che se si dovesse votare domani mi sentirei un emerito stupido al momento di entrare nella cabina elettorale. E non tanto per quella diffusa sensazione di nausea verso la classe politica e per la sua incapacità di governare il paese, che di per sé sarebbe già un valido motivo; mi sentirei uno stupido, semmai, perché ancora una volta approverei un sistema di voto e di governo che è la causa principale di quella incapacità. In parole povere, mi recherei al seggio elettorale sapendo già in anticipo che la nuova legislatura si rivelerebbe, ancora una volta, un sostanziale fallimento politico.

UNA PRESA IN GIRO
Ergo, risparmiamoci le solite frasi retoriche sul diritto di voto che in democrazia è anche un dovere morale, eccetera eccetera, perché a fare i tromboni ci pensano già i politici, quindi evitiamo almeno di scimmiottarli. Oltretutto è evidente a tutti che si può andare a votare anche dieci volte all’anno, ma ciò nonostante la democrazia è letteralmente in balia delle banche che prosperano sui debiti pubblici, dei kapò dell’euro e dei loro adepti, alcuni dei quali sono noti primi ministri di importanti paesi.
La democrazia appunto. Che negli ultimi sei mesi, in Italia, ha raggiunto forse il punto più basso, tanto che ormai possiamo considerarci, senza esagerazione, un paese a sovranità limitata. Qui finisce la lunga premessa e passiamo alle idee, alle proposte che forse potrebbero far cambiare proposito a tutti coloro (e c’è da giurarci, sono tantissimi) i quali oggi come oggi, se dovessero seguire l’istinto (guai a demonizzare l’istinto), userebbero volentieri la scheda elettorale al posto della carta igienica. 
Votare in queste condizioni, fra meno di un anno, sarebbe un insulto all’intelligenza degli Italiani. In primo luogo perché l’attuale sistema elettorale è quanto di peggio si possa concepire in fatto di rappresentanza dei cittadini. In secondo luogo perché l’attuale distribuzione dei poteri tra gli organi dello Stato, concepita nell’immediato dopoguerra quando l’Italia era appena uscita da una dittatura ventennale, oggi è la causa di gran lunga principale della mancanza di governabilità, come spiegato più volte in questo blog, e come dimostra soprattutto la durata media dei governi (circa un anno) nella storia della repubblica: una roba che non esiste in nessuna, e sottolineo nessuna, democrazia del pianeta.

NUOVO PARLAMENTO
Può la nostra democrazia ritrovare un briciolo di credibilità? Può farlo, certo, ma a condizione che aggiorni se stessa, se non vuole che decadano anche i principi sui quali è fondata. Bisognerebbe, innanzitutto, ridurre il numero dei parlamentari ed eliminare il bicameralismo perfetto, con l’elezione di una sola Camera (composta da non più di 400 o 420 membri) affiancata da un’altra assemblea che rappresenti le autonomie regionali (circa 150 delegati delle Regioni).

NUOVA LEGGE ELETTORALE
A questo punto, sarebbe quanto mai opportuno tornare al sistema maggioritario uninominale, come i cittadini italiani indicarono inequivocabilmente nel referendum più drammatico della nostra storia recente, quello del 1993 promosso da Mario Segni. Il sistema di voto potrebbe essere elaborato come una via di mezzo tra quello francese parlamentare e quello inglese, ovvero come nella seguente ipotesi:
a) divisione del paese in 330 collegi, in ognuno dei quali viene eletto alla Camera un solo deputato;
b) i candidati devono essere espressione non di una coalizione, ma di un singolo partito. È da ricordare che, come tutti gli esperti dimostrano, nel maggioritario uninominale l’elettorato si orienta naturalmente verso i grandi partiti (il cosiddetto voto utile) i quali finiscono così per ottenere percentuali di voto che non otterrebbero con altri sistemi. Fra i partiti minori, invece, gli unici ad essere favoriti dall’uninominale puro sono quelli con forte radicamento territoriale;
c) una possibile distorsione di tale sistema è l’eventualità – verificatasi alcune volte in Inghilterra – che un partito abbia il maggior numero di preferenze a livello nazionale sui propri candidati (sommando i voti dei collegi in cui ha vinto e quelli dei collegi in cui ha perso), ma non il maggior numero dei seggi, cioè dei collegi in cui ha prevalso il proprio candidato, che poi è il dato che conta per la vittoria a livello nazionale. Per mettere una pezza a questo problema si potrebbe adottare il sistema francese del doppio turno, ovvero prevedere che il seggio venga assegnato al primo turno solo al candidato che ottiene almeno il 35 o il 40% dei voti (in Francia, nelle elezioni parlamentari, è il 25%); in caso contrario vanno al ballottaggio i primi due candidati;
d) un'altra possibile situazione paradossale potrebbe verificarsi qualora un partito, pur ottenendo un numero abbastanza alto di preferenze a livello nazionale (ad esempio, il 12%), non riuscisse a vincere neppure in un collegio, rimanendo così fuori dal Parlamento. È successo, negli anni ’90, ancora in Inghilterra, al Partito Liberale, che rimase fuori dalla Camera dei Comuni pur avendo ottenuto il 18 per cento nazionale sommando i voti dei suoi candidati nei vari collegi. Una soluzione tampone sarebbe quella di far andare al ballottaggio, nei collegi in cui nessun candidato ha raggiunto il 40%, anche il candidato arrivato terzo, a patto però che abbia raggiunto una certa percentuale di voti, ad esempio il 10 o il 12%;
e) per garantire a chi vince una maggioranza solida, al partito che prevale con i propri candidati nel maggior numero dei collegi viene assegnato un premio di maggioranza di 90 deputati, scelti tra i propri migliori non eletti al primo turno. Un’ipotesi, quindi, potrebbe essere la seguente: partito A vince le elezioni perché ottiene, tra primo e secondo turno, 130 seggi su 330, ai quali si aggiungono i 90 del premio di maggioranza per un totale di 220 seggi su 420, una maggioranza più che sufficiente per governare in un sistema quasi monocamerale, tanto più che non sono esclusi accordi parlamentari successivi con altre forze politiche.

PIU’ POTERI AL GOVERNO E NORME ANTI-RIBALTONE
Il secondo passaggio fondamentale riguarderebbe invece l’architettura istituzionale degli organi politici. In questo senso, bisognerebbe finalmente rafforzare le funzioni del premier (il quale potrebbe essere il leader del partito vincitore), a cominciare dal potere di nomina e di revoca dei ministri. In generale, occorre rivedere l’equilibrio tra il capo dello Stato e il capo dell’esecutivo (che nel nostro ordinamento attuale, in realtà, non è un capo ma un primus inter pares, dal momento che ha solo il potere di coordinare l’attività dei ministri) modellandolo sull’esempio del premierato inglese e del cancellierato tedesco. Infine, per garantire stabilità al governo e continuità alla sua azione, bisognerà istituire delle norme anti-ribaltone, prendendo spunto dalla “sfiducia costruttiva” in vigore in Germania. In pratica, la mozione di sfiducia contro il premier o contro l’esecutivo può essere legittima solo a due condizioni: deve essere proposta da un adeguato numero di parlamentari della maggioranza (almeno 30) e deve prevedere l’indicazione obbligatoria di un nuovo premier e dei componenti di un nuovo esecutivo, cosa non facile da mettere in pratica perché richiede un accordo di ampio respiro tra i promotori della sfiducia.
Si tratta, naturalmente, di ipotesi e di proposte. Quello che interessa realmente è che si guariscano i mali cronici della politica repubblicana: il diritto dei cittadini di vedere il loro voto adeguatamente rappresentato, nonché la stabilità del governo, al quale devono essere finalmente assegnati poteri idonei per attuare il programma, come avviene del resto in tutte le democrazie (sicuramente più che in Italia), senza essere continuamente sottoposto ai ricatti dei partitini e dei voltagabbana, con le conseguenze catastrofiche alle quali in 64 anni di repubblica abbiamo fatto mestamente l’abitudine.
Rendere dunque più credibile il sistema politico, questo è ciò che va fatto prima ancora dei provvedimenti economici; altrimenti nessuno si dovrà meravigliare se si registrerà un’astensione di massa. Anche quest’ultima, peraltro, è un diritto legittimo come quello di voto. E non è detto inoltre che possa essere meno utile. Sarebbe interessante, in effetti, verificare le reazioni della nostra classe dirigente di fronte ad un’astensione senza precedenti. Probabilmente avrebbero la faccia tosta di dare avvio comunque alla legislatura. Ma in quel caso resterebbe ai cittadini un’altra forma di protesta, più devastante e forse più legittima dell’astensione: quella fiscale. L’importante, in ogni caso, è svegliarsi dal torpore senza lasciarsi travolgere dagli eventi. E dai tromboni.

Fuori dall'euro subito, a meno che...

Presto o tardi anche l'Italia, al pari della Grecia, sarà fuori dall'eurozona. I sacrifici non sono bastati, tanto vale tornare alla lira subito, anziché farci spennare per niente. Una terza via? Esiste, ma ci vorrebbe una rivoluzione

Meglio tornare alle vecchie lire subito, piuttosto che farlo dopo manovre sanguinose ed inutili. All'idea di un'Italia fuori dall'eurozona occorrerà abituarsi, perché fra qualche anno la sorte del nostro Paese sarà identica a quella toccata alla Grecia, la quale nel giro di massimo 12 mesi tornerà alla dracma.
Conosciamo le obiezioni: uscire dall'euro significherebbe avere, almeno nel primo anno, un'inflazione a due cifre; comporterebbe una fuga di capitali all'estero senza precedenti (come già sta accadendo in Grecia, dove il governo provvisorio ha deciso di piazzare i militari davanti alle banche e di fissare un limite ai prelievi giornalieri); aumenterebbe il peso relativo degli interessi del nostro debito pubblico; persino le esportazioni, che in teoria dovrebbero trarre enormi benefici da un ritorno alla lira, potrebbero essere penalizzate da eventuali dazi che i Paesi-euro imporrebbero per arginare l'ingresso nei loro mercati dei prodotti italiani, i quali altrimenti farebbero manbassa.
Ma pur riconoscendo l'ovvietà che un ritorno alla vecchia moneta metterebbe in ginocchio la nostra economia, almeno nei primi anni, qualcuno può spiegarci allora a cosa sono serviti in Grecia i licenziamenti dei dipendenti pubblici, le tasse, i tagli, gli enormi sacrifici, se poi questo Paese ha dovuto comunque dichiarare il default? Forse ci si illude che la situazione dell'Italia sia diversa, ma proprio qui sta l'errore.
COME LA GRECIA  Di certo l'Italia ha un tessuto produttivo molto più solido della Grecia, come anche della Spagna, del Portogallo e dell'Irlanda. Può vantare una ricchezza complessiva più elevata e un andamento del bilancio statale molto più regolare. Ma i parametri richiesti per rimanere nell'euro non è in grado comunque di rispettarli, semplicemente perché è impossibile farlo. Impossibile abbassare il rapporto debito/pil dall'attuale 121 per cento fino al 60, tanto più che per fine 2012 il governo stesso ha previsto un rialzo fino al 123 per cento, e questo nonostante le manovre lacrime e sangue. Impossibile finanziare il nostro debito pubblico sperando che il mercato ne acquisti una grossa parte, se è vero come è vero che la vendita dei titoli di Stato continua inesorabilmente a calare (in questo siamo in ottima compagnia). Impossibile, infine, trovare soluzioni di politica economica e fiscale utili a rimettere in sesto i bilanci pubblici, perché il fondo del barile è stato già raschiato, e se non è cosi ci manca poco.
Alla luce di tutto ciò, non si capisce a che pro noi dovremmo continuare ad essere martellati a colpi di tasse, di balzelli e di tagli indiscriminati (perché questo avverrà anche nei prossimi anni, mettetevi l'anima in pace), per poi essere costretti ad uscire dall'eurozona lo stesso. Tanto vale, quindi, uscire subito, anziché farci spennare per niente. Delle conseguenze più o meno catastrofiche abbiamo già detto, ma tanto quelle le subiremo in ogni caso (per i possibili scenari del dopo-euro, non necessariamente negativi, vi rimandiamo a questo vecchio articolo-->Ritorno alla lira: cosa accadrebbe?).
Il ritorno alla vecchia moneta, per la verità, si potrebbe anche evitare, a patto però che si verifichi almeno una delle due seguenti condizioni. Giudicherete da soli, poi, quanto queste due speranze possano essere realistiche.
PER SALVARE L'EURO 1) La Germania accetta l'idea che i Paesi mettano in comune i debiti, in modo da superare il paradosso in base al quale la moneta è unica, ma i debiti sono sovrani. A questo punto non verrebbero più emessi titoli dei debiti pubblici nazionali con rendimenti diversi, ma titoli del debito pubblico europeo, emessi dalla Banca centrale europea, la quale finalmente comincerebbe a funzionare come una vera banca centrale, con la possibilità, tra le altre cose, di svalutare la moneta per rimettere in moto l'economia. Gli stessi aiuti alle banche in difficoltà non sarebbero forniti da un organo virtuale come il cosiddetto "eurosistema", ovvero dall'insieme dei fondi occasionali delle singole banche nazionali o dalle banche nazionali in proprio (come ha fatto la Germania, e in misura minore l'Italia con i "Tremonti bond"), ma dalla Bce, ovviamente fornita di riserve stabili e adeguate, con dei bond europei. 
Sembrerebbe uno scenario plausibile, ma in realtà è molto difficile che ciò avvenga. Non c'entra la Merkel, come tutti pensano. C'entra invece il fatto che la Germania è il paese che più si è avvantaggiato dalla crisi dell'eurozona, soprattutto perché, avendo un'economia più in salute, i suoi prodotti hanno potuto sbaragliare tutta la concorrenza, Italia in primis.
I tedeschi preferirebbero, semmai, fare un nuovo Euro del Nord, più forte di quello attuale, che invece resterebbe in corso nell'Europa del Mediterraneo. E proprio in questo senso si stanno muovendo da tempo.
O PER SALVARE L'ITALIA 2) Avviene qualcosa a metà strada tra il rivoluzionario e il miracoloso. I governi italiani capiscono che l'unico modo per risollevare l'economia ed uscire dal pantano del debito è quello di far ripartire in quinta la produttività del Paese. Come? Nell'unica maniera possibile, ovvero con un abbassamento drastico della pressione fiscale, in stile governi Reagan e Tatcher. All'inizio, probabilmente, le entrate fiscali diminuirebbero, ma con una pressione fiscale più giusta, di sicuro diminuirebbe anche l'evasione. E in ogni caso, una volta rilanciata l'economia riducendo sensibilmente il peso delle tasse che grava sulle spalle di imprese e consumatori, gli introiti fiscali tornerebbero sicuramente a salire, probabilmente a livelli mai visti prima e tali non solo da mantenere almeno inalterato il livello dei servizi pubblici fondamentali, ma anche da poter avviare una seria modernizzazione delle infrastrutture. Ovviamente, per poter imprimere questa svolta, all'inizio sarebbe necessario tagliare gli sprechi pubblici a tutti i livelli. Ma tagliarli sul serio. Sto pensando la stessa cosa a cui state pensando voi: ipotesi decisamente NON REALISTICA.