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Castigat ridendo mores

Ecco come la Germania potrebbe aver truccato i conti

I tedeschi non conteggerebbero le spese previdenziali e i debiti della Kreditanstalt für Wiederaufbau, un istituto simile alla nostra Cassa Depositi e Prestiti. Se così fosse il debito reale sarebbe il triplo di quello dichiarato

E se la Germania fosse il Paese più indebitato, anziché quello più virtuoso della Ue, come tutti abbiamo sempre creduto?
Potrebbe sembrare una sparata da titolone, ma stando a quanto rivelato da due articoli pubblicati sul Corriere della Sera e su Libero, non solo il debito complessivo della Germania sarebbe il più alto d'Europa (questo già era noto), ma potrebbe essere molto più elevato di quanto dichiarato, se non fosse per qualche trucchetto utilizzato dai governi teutonici dopo l'unione tra Repubblica federale ed ex Ddr. Di conseguenza, anche l'incidenza percentuale del debito sulla ricchezza pubblico-privata (Pil) sarebbe da bollino rosso. Addirittura peggiore del rapporto debito-pil della Grecia. Per capire meglio, leggiamo quanto riportato nei due articoli sopracitati. Il primo, di Massimo Mucchetti, è stato pubblicato sul Corriere della Sera il 7 settembre scorso. Di seguito ne riportiamo un estratto.
"Angela Merkel paragona l'Italia alla Grecia. Per quanto si possa dir male del nostro governo, il cancelliere sbaglia.
Roma non ha mai mentito sui suoi conti pubblici come ha fatto Atene. E poi la Germania dovrebbe comunque rispettare un partner commerciale dove esporta più che in Cina. E infine, quanto a debito pubblico, il governo di Berlino si avvale di antiche furbizie.
Che, alla vigilia della sentenza della Corte costituzionale di Karlsruhe sui salvataggi già fatti e in vista della seduta del Bundestag di fine mese sul piano salva Stati, vale la pena di ricordare. Da 16 anni la Germania non include nel suo debito pubblico le passività del Kreditanstalt für Wiederaufbau, meglio noto come KfW, posseduto all'80% dallo Stato e al 20% dai Länder, altri soggetti pubblici. Si tratta di 428 miliardi di euro interamente garantiti dalla Repubblica federale.
La KfW fa mutui a enti locali e piccole e medie imprese. Detiene partecipazioni cruciali in colossi come Deutsche Post e Deutsche Telekom. È vigilata dai ministeri delle Finanze e dell'Industria, non dalla Bundesbank. Grazie al legame di ferro con lo Stato, la KfW conquista la medaglia d'oro nella classifica mondiale dell'affidabilità, stilata da Global Finance, e il massimo rating da parte di Moody's, Standard & Poor's e Fitch, lo stesso della Repubblica federale. Le sue obbligazioni sono dunque uguali ai bund. Ma a differenza dei bund, magicamente non entrano nel conto del debito pubblico.
Se vi entrassero come la logica del Trattato di Maastricht vorrebbe, il debito pubblico tedesco salirebbe da 2.076 miliardi a 2.504 e la sua incidenza sul prodotto interno lordo 2011 balzerebbe dall'80,7% al 97,4%. Ancora un piccolo passo, magari per salvare qualche banca tedesca ingolosita dai titoli di Stato mediterranei, e potremmo dire: benvenuta Germania tra noi del club degli over 100%! La magia, che nasconde il 17% del debito pubblico reale tedesco, si chiama Esa95. È il manuale contabile che esclude dal debito pubblico, a integrazione dei criteri di Maastricht, le società pubbliche che si finanziano con pubbliche garanzie ma che coprono il 50,1% dei propri costi con ricavi di mercato e non con versamenti pubblici, tasse e contributi. La serietà di un tale principio è paragonabile alla considerazione del rischio di controparte negli Ias-Ifrs, i principi contabili che hanno favorito il crac Lehman. Se per ipotesi KfW avesse problemi, chi pagherebbe? Lo Stato. E senza nemmeno l'ipocrisia degli Usa che qualificavano le loro Fanny Mae, Freddie Mac e Ginnie Mae come imprese sponsorizzate dal governo per far capire che, alla bisogna, il Tesoro avrebbe coperto, ma senza dirle statali per non sembrare statalisti.
Ora l'Italia ha la Cassa depositi e prestiti, 70% Tesoro, 30% fondazioni bancarie, soggetti privati. La Cdp emette anno dopo anno obbligazioni che godono della garanzia statale e sono collocate dalle Poste sotto forma di buoni e di libretti. Mal contati sono 300 miliardi, due terzi reinvestiti in titoli di Stato e un terzo in mutui agli enti locali. La Cdp emette anche obbligazioni non garantite per una ventina di miliardi destinate alle iniziative per le imprese e detiene partecipazioni rilevanti. Ma il suo debito è per tutta la parte coperta da garanzia pubblica conteggiato nel debito pubblico. In un mondo serio delle due l'una: o la Germania ricalcola il suo debito come si deve perché l'Eurozona sotto attacco non accetta più furbizie da parte di nessuno, ancorché legalizzate a forza, oppure l'Italia deconsolida dal suo debito pubblico quei cento miliardi o giù di lì che la Cdp usa per gli enti locali, dato che questi la scelgono su un mercato bancario liberalizzato".
Il ragionamento di Mucchetti sembra proprio non fare una grinza e in effetti fa adombrare il sospetto che i conti ufficiali della Germania siano stati leggermente taroccati. Ma a gettare un'ombra inquietante sulla situazione del bilancio della Repubblica federale (e sulla sua credibilità) è un'altra notizia, questa più recente. Secondo quanto riportato da Libero di oggi (21 dicembre), il colpo di spugna al debito pubblico tedesco sarebbe molto più vistoso, tanto da ridurlo addirittura del 70 per cento!
Tutto è nato da una lettera inviata da un lettore del Corriere della Sera al quotidiano di via Solferino, e pubblicata alcuni giorni fa. Nella lettera si citava un articolo apparso su una rivista economica tedesca e in cui veniva evidenziato il fatto che i governi teutonici non conteggerebbero, nel computo del debito di bilancio, una grossa parte delle spese previdenziali, che come sappiamo hanno un peso notevole in relazione alla spesa pubblica.
Ecco un estratto dell'editoriale di Maurizio Belpietro (Libero) sulla vicenda. "Più furbetti di lei in giro non ci sono: Angela Merkel vuol far pagare i debiti della Germania all'Italia e al resto dell'Europa. Berlino trucca i conti e solo così può dare lezioni ai paesi in difficoltà. Se i tedeschi non imboscassero i vitalizi previdenziali e gli assegni per le persone disabili, avrebbero infatti un debito di 7mila miliardi di euro, più del triplo di quello dichiarato [...] Il rapporto tra debito e Pil, invece di essere così virtuoso (85%), schizzerebbe ad un astronomico 197 per cento. Per intendersi, 77 punti in più di quello italiano e superiore anche a quello della Grecia fallita. Se poi si bada al fabbisogno di consolidamento, l'Italia è al 2,4, meglio di Berlino.
Che l'Italia sia il socio più rispettabile di Eurolandia nella graduatoria della "sostenibilità del debito pubblico" lo ha affermato, a sorpresa, la Fondazione tedesca Marktwirtschaft (economia di mercato), che riunisce personalità del riformismo liberale tedesco. La giuria ha valutato la "rispettabilità"nazionale distinguendo tra debito pubblico esplicito e implicito. L'Italia viene premiata perché può vantare il più encomiabile "divario di sostenibilità" tra le due forme del debito, ottenendo così un "fabbisogno di consolidamento", come detto, del 2,4 per cento. "Solamente confrontando il debito esplicito delle pubbliche amministrazioni centrali e periferiche con quello implicito, occulto, del sistema pensionistico, assistenziale e sanitario si può fare un bilancio trasparente e sincero degli oneri di un Paese", ha spiegato Bernd Raffelhüschen, docente di economia all'università di Friburgo e promotore dell'iniziativa di Marktwirtschaft. Il basso indebitamento implicito e l’avanzo primario di bilancio, fa notare il professore, rispecchiano i risultati ottenuti con le prime correzioni del sistema pensionistico e sanitario varate negli ultimi anni".
Tempo fa l'Attaccabrighe dimostrò come anche il modello energetico tedesco fosse una mezza bufala, alimentata soprattutto dai giornali italiani. Non avremo esagerato, forse, nell'enfatizzare la virtù di questi crucchi? In ogni caso, queste rivelazioni sul debito della Germania cambiano le carte in tavola. O almeno, in un mondo normale, così dovrebbe essere.

500 miliardi nei paradisi fiscali: quando andiamo a prenderli?

Almeno 180 si troverebbero nella sola Svizzera, con la quale Germania e Inghilterra hanno stretto un accordo. E noi? Tagliamo le pensioni e facciamo finta di nulla con chi non ha neppure utilizzato lo scudo?

L'altra faccia della rivolta fiscale si chiama "evasione scandalosa". Se lo Stato diventa sempre più vessatorio (soprattutto nei confronti dei cittadini onesti), facendo maturare quella percezione di intollerabile ingiustizia che nel precedente articolo ha indotto l'Attaccabrighe a proporre addirittura una rivolta fiscale, non è dovuto solo al fatto che la spesa pubblica improduttiva è troppo alta. Esiste anche il problema dei troppi connazionali farabutti che continuano a farla franca a nostre spese.
A tal proposito, non sarà il caso di prendere in considerazione l'idea di chiedere una rogatoria internazionale ad alcuni dei più grossi paradisi fiscali sparsi sul globo, e andare finalmente a pizzicare le montagne di denaro che molti nostri compatrioti vi nascondono? No, perché se dobbiamo tagliare le pensioni alle vecchiette o pagare la benzina come oro colato, e poi vedere gente con il villone andare oltrefrontiera per nascondere i propri capitali nei caveau elvetici, vuol dire che alle porcherie non c'è proprio limite. E confermerebbe il fatto che l'appello alla rivolta è più che giustificato.
Anche perché - particolare non trascurabile - a coloro che hanno frodato lo Stato nascondendo soldi e patrimoni nei 63 paradisi fiscali "censiti" dall'Ocse (clicca sulla cartina a lato) è stata data l'opportunità di mettersi in regola, con tanto di garanzia di anonimato. Quello che è stato chiamato "scudo fiscale", in realtà, è un condono bello e buono, dal momento che si potevano rimpatriare attività finanziarie e patrimoniali a fronte del solo pagamento di una somma del 5 per cento a titolo di imposta e sanzioni, mentre in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, tanto per intenderci, chi ha voluto regolarizzare i capitali esportati ha dovuto pagare in toto le imposte evase negli anni precedenti.
Tutto ciò, ovviamente, si aggiunge al fatto che riportare i soldi in Italia significava, per gli anonimi evasori, evitare possibili condanne fino a sei anni di carcere, per vari reati tributari e non solo. Ebbene, sapete quanti soldi sono rientrati? 85 miliardi di euro, che all'erario hanno fruttato circa 4 miliardi di entrate immediate. Ma sapete a quanto ammontano i capitali italiani nascosti nei paradisi fiscali del mondo? Secondo stime per ovvi motivi approssimative, sarebbero circa 500 miliardi, di cui non meno di 180 nella sola Svizzera. Si badi bene al fatto che si tratta solo di stime, visto che secondo alcuni esperti potrebbero essere anche il doppio, in particolare quelli portati in Svizzera, nelle cui banche potrebbero esserci addirittura 300 miliardi di euro italiani.
D'altra parte è risaputo in tutta Europa (e in particolare lo sanno i nostri vicini confederati) che la Svizzera la manteniamo noi. Tremonti ci aveva provato a fare il duro, arrivando addirittira a minacciare la richiesta di una rogatoria, ma ha dovuto desistere in seguito a pressioni ricevute da più parti, soprattutto dalla Lega.
Figuriamoci, i nostri politici sono di una pavidità penosa. Che tuttavia faranno bene a vincere (tecnici e non), perché il popolo bue è incazzato come non mai e questo per loro non prelude a nulla di buono. L'iniziativa di Germania e Gran Bretagna, oltretutto, potrebbe metterli all'angolo.
Inglesi e Tedeschi, infatti, hanno stretto con la Svizzera un accordo che prevede la creazione di una nuova imposta alla fonte e anonima - più articolata rispetto all'attuale euroritenuta in vigore per tutti i cittadini Ue - per i cittadini tedeschi e inglesi che hanno capitali non dichiarati in Svizzera. Questa imposta permetterebbe di sanare le situazioni attuali di evasione, che d'ora in poi saranno soggette ad imposizione fiscale, seppur mantenendo le norme elvetiche sul segreto bancario.
Secondo alcune indescrezioni anche l'Italia sarebbe pronta ad avviare trattative in questo senso con i vicini confederati. Considerando una media di 180 miliardi di redditi parcheggiati oltre confine nel corso degli anni, e applicando un'aliquota Irpef media del 33 per cento, l'Agenzia delle Entrate incasserebbe circa 60 miliardi. Altro che Ici. E comunque, semmai questa ipotesi si concretizzasse, è necessario accelerare i tempi pachidermici della politica, del tutto imparagonabili a quelli dei furbetti di casa nostra. Il via vai dei nostri connazionali oltrefrontiera, infatti, è cominciato da parecchi mesi. E una volta trasferiti dal conto bancario alle cassette di sicurezza, quei soldi non li prende più neanche Lupin. 
      

Ci vorrebbe una rivolta fiscale

Gli esempi di resistenza fiscale nella storia sono tanti. E anche gli Italiani, oggi, qualcosa potrebbero fare: dall'Ici ai carburanti, dal 5 per mille alle lotterie, all'oppressione fiscale si può reagire anche senza violare la legge

Non ho nessuna intenzione di tediarvi con un nuovo pistolotto contro le tasse. Quello che pensa l'Attaccabrighe sulla pressione fiscale è stato spiegato in numerosi articoli, in particolare in uno pubblicato tre mesi fa (per chi avesse voglia di darci una sguardo, eccolo qua (http://lattaccabrighe.blogspot.com/2011/09/ridurre-al-minimo-cio-che-e-pubblico-o.html). Ma la manovra proposta dal governo Monti ha fatto riemergere un dato drammatico: dal 1992, l'aumento della pressione fiscale non conosce limiti. In diverse occasioni abbiamo pensato che la misura fosse colma, che non si potesse andare oltre, un po' come il record dei 100 metri. E invece "zac": 9 e 79, arriva il nuovo primato.
Vado giù piatto. Dobbiamo continuare a farci spennare come polli all'infinito? Vogliamo veramente (e non solo iperbolicamente) fare la fine di grandi civiltà del passato, come l'Impero Romano, ed essere sepolti dai costi che gli apparati statali sostengono per mantenere se stessi? Non è forse il caso di dar vita a qualche atto di disobbedienza civile, di resistenza o di rivolta fiscale?
ESEMPI DEL PASSATO
Ribellarsi contro un fisco predone, anche senza violare la legge, non è impossibile. Tra poco lo dimostreremo. E oltretutto, la storia è piena di esempi di resistenza fiscale. Qui ne citeremo tre. Una famosa ribellione contro le tasse fu quella dei coloni americani che nel 1774 si rifiutarono di pagare le tasse alla madrepatria britannica. Fu l'inizio di una rivoluzione che portò alla conquista dell'indipendenza americana. Nel 1930, la campagna del Mahatma Gandhi per l'indipendenza dell'India ebbe uno dei suoi punti chiave in una protesta fiscale nei confronti degli occupanti britannici. Tale resistenza ebbe il suo culmine con la famosa marcia attraverso l'India. E metodi simili di disobbedienza civile, in relazione alle tasse, furono adottati anche da Martin Luther King.
Un caso che invece interessa noi da vicino fu quello della California, dove nel 1978 i cittadini chiesero e ottennero un referendum locale riguardante la tassazione delle case. La legge che ne venne fuori (la famosa "Proposition 13") rese illegale l'aumento delle imposte sugli immobili. E' un episodio che potrebbe servirci da esempio: l'Ici sulla prima casa, così come l'Imu prevista dal precedente governo, è la forma più odiosa di prelievo fiscale, perché va a colpire il patrimonio in un bene primario, per il quale molte famiglie si accollano mutui ultradecennali.
COSA FARE OGGI: CARBURANTI E LOTTERIE
Andando più nel concreto e nell'immediato, invece, qualcosa si potrebbe fare subito. Cominciando proprio dai carburanti, le cui accise (statale e regionale) hanno fatto salire i prezzi a livelli ormai intollerabili, soprattutto se si considera che tali aumenti si aggiungono a quelli scandalosi di autostrade e trasporti pubblici. Si dovrebbe perciò evitare di fare rifornimento ai distributori Agip, controllati dall’Eni e che garantiscono al ministero dell’Economia qualche miliardo di dividendi annui. E un'altra voce importante delle entrate del Tesoro sono ovviamente i Monopoli, a cominciare dai giochi e dalle lotterie. Sarebbe una forma di protesta clamorosa, se tutti gli Italiani boicottasero Lotto, Superenalotto, Totocalcio, scommese, Gratta e Vinci e chi più ne ha più ne metta.
In generale, dovremmo evitare di acquistare prodotti e servizi dello Stato, come l'energia elettrica per esempio, scegliendo soluzioni alternative e magari più economiche.
CINQUE PER MILLE E SCADENZE
E anche quando siamo proprio costretti a pagare, dobbiamo cominciare a farlo con più malizia e, soprattutto, senza regalare nulla allo Stato. Quindi attenzione quando si compila la dichiarazione dei redditi: meglio donare il 5 per mille ad un'associazione, anziché lasciare che venga incamerato automaticamente dall'erario. Né tantomeno bisogna essere superficiali su tutti gli acquisti deducibili, perché a volte la pigrizia ci porta a non conservare scontrini e fatture o, peggio ancora, a non essere ben informati su tutti gli acquisti che si possono "scaricare".
I lavoratori autonomi, infine, dovrebbero evitare di pagare alla scadenza tutti i tipi di imposte dovuti all’erario, quali ad esempio Iva, Ire (ex  Irpef) e addizionali, Irap, Irpeg, contributi Inps, effettuando il pagamento in ritardo di mesi o addirittura anni, e accollandosi in questo caso i costi delle penali che sono del tutto irrisori, nell’ordine del 6 per cento annuo sul dovuto. 
Si tratta di iniziative solo in apparenza velleitarie, perché se attuate da tutti costituirebbero un segnale forte all'indirizzo di una classe politica (italiana ed europea) le cui strategie di politica economica, ormai, non riescono ad andare oltre l'orizzonte limitato dell'imposizione fiscale indiscriminata. Il perché lo sapete, basta vedere gli sprechi pubblici presenti a tutti i livelli di governo. E purtroppo i normali strumenti democratici non bastano più per far sentire la nostra voce.     

Nessuno lavorerà più di noi

Il nostro sistema pensionistico potrebbe diventare il più "severo" del mondo. Dalle baby-pensioni alle retribuzioni gonfiate, ecco tutti i regali fatti alle generazioni passate e che pagheranno quelle presenti e future

In pensione a 66 anni o con almeno 42 anni di contributi (41 per le donne). Questa la proposta-choc che il governo Monti sottoporrà alla discussione del Parlamento e che, se dovesse passare, farà degli Italiani il popolo con più anni di lavoro sul groppone. E non solo per quelli del futuro, visto che la riforma coinvolgerà decine di migliaia di lavoratori che erano ormai prossimi alla pensione. Per moltissimi di loro, peraltro, l'assegno, quando avranno maturato i requisiti, non sarà più calcolato sulla base del sistema retributivo o di quello misto retributivo-contributivo (come prevedeva la riforma Dini del 1995), bensì su quello contributivo integrale. Il danno e la beffa.
Ma perché così tanto accanimento su queste benedette pensioni? Perché, insomma, il sistema pensionistico italiano, così com'è strutturato attualmente, non è finanziariamente sostenibile? Nel modo più sintetico possibile, l'Attaccabrighe cercherà ora di rispondere a questa domanda che i cittadini comuni si pongono. Scopriremo che quello degli anni di lavoro o di vecchiaia è solo uno dei problemi della nostra previdenza, e neanche il più importante.
Sono quattro, nello specifico, i punti deboli che hanno fatto del sistema pensionistico italiano una macchina mangia-soldi: a) l'età pensionabile; b) il sistema di calcolo delle pensioni; c) le baby-pensioni; d) le finte pensioni di invalidità. Sul punto a) abbiamo già scritto nel precedente articolo, dimostrando che all'inizio degli anni '90 il divario tra l'Italia e i partner europei non era così abissale. Da noi, infatti, si andava in pensione con 57 anni di età o con 32 di contributi, che la riforma Dini del 1995 portò a 35, fissando anche un'età minima di 54 anni (portata poi a 57 nel 2001). Di certo si lavorava un po' meno rispetto agli altri, se si pensa che proprio a metà anni '90 la Germania riformava le pensioni di anzianità in questo modo: 63 anni di età e 35 di contributi, due requisiti entrambi obbligatori e non alternativi. Con la pensione di anzianità i tedeschi percepiscono inoltre qualcosa in meno rispetto a chi prosegue fino ai 65 anni per maturare il diritto alla pensione di vecchiaia. A noi sarebbe bastato copiare pari pari questo impianto, senza dubbio il più equilibrato che ci sia, per evitare la stangata che ci sarà rifilata dal governo Monti e che farà sembrare quasi morbido il sistema tedesco (loro, per esempio, porteranno le pensioni di vecchiaia a 67 anni solo nel 2029). Purtroppo abbiamo rifiutato per anni questo cambiamento (forte ma non traumatico), limitandoci a qualche riformina che rinviava all'infinito un serio aggiustamento dei conti. Così adesso dovremo sottoporci ad una terapia d'urto.
Quello dell'età pensionabile, tuttavia, non è il difetto principale del nostro sistema previdenziale. Per le casse degli istituti di previdenza è stato certamente più oneroso il modo in cui venivano calcolati gli assegni. Fino al 1995, infatti, questo calcolo veniva fatto sulla base del sistema cosiddetto "retributivo". In pratica, l'assegno corrispondeva grosso modo ad una sorta di media degli stipendi percepiti negli ultimi cinque anni di servizio. In apparenza giusto, ma di fatto insostenibile nel lungo periodo, non solo perché una parte delle pensioni vengono pagate con i contributi dei lavoratori attivi, ma soprattutto per via di un fenomeno assai diffuso nella nostra Italia, in particolare nel settore pubblico: quello delle retribuzioni gonfiate negli ultimi anni di servizio, durante i quali diverse categorie ottengono repentini scatti di carriera oppure hanno la possibilità di alzare la propria retribuzione con straordinari mai fatti in giovane età. Il tutto finalizzato, ovviamente, ad un aumento dell'assegno pensionistico. La riforma Dini (1995) stabilì che con il sistema retributivo sarebbero state pagate solo le pensioni di coloro che alla data del 31 dicembre 1995 avevano maturato almeno 18 anni di contributi; per gli altri, invece, sarebbe entrato in vigore un sistema misto: retributivo per gli anni di servizio antecedenti a quella data, "contributivo" (cioé basato sul rapporto tra quanto effettivamente versato all'istituto di previdenza sottoforma di contributi ed un coefficiente particolare) per gli anni successivi. Per chi cominciava a lavorare dal 1996, invece, valeva il contributivo integrale. Risulta evidente che sarebbe stato più opportuno far passare subito tutti al contributivo integrale: ciò avrebbe aiutato le casse degli istituti di previdenza e inoltre si sarebbe evitata a molti lavoratori la beffa di vedersi modificato il sistema di calcolo della pensione qualche anno prima di prenderla, come appunto accadrà in seguito alla riforma dell'attuale governo.
E veniamo ora ai punti c) e d), ovvero quelli relativi alle "pensioni-regalo". Per qualcuno il vero buco nero del sistema pensionistico italiano. Di sicuro fra le cause principali dello squilibrio fra entrate e uscite.
Per “baby-pensioni” si intendono quelle pensioni erogate dallo Stato italiano a lavoratori del settore pubblico che hanno versato i contributi pensionistici per pochi anni o che hanno avuto la possibilità di ritirarsi dal lavoro con età inferiore ai 40-50 anni. Le baby pensioni furono inaugurate nel 1973 dal governo Rumor con una legge che consentiva ai dipendenti pubblici di ritirarsi con pochi anni di anzianità: 14 anni, 6 mesi e 1 giorno di contributi per le donne sposate con figli, 20 anni per gli statali, 25 per i dipendenti degli enti locali. Sono state eliminate solo nel 1992. Secondo una recente inchiesta del Corriere della Sera i baby-pensionati sarebbero circa mezzo milione e costerebbero allo Stato, udite udite, circa 9 miliardi di euro l’anno. Ogni commento è superfluo, perché qui i numeri parlano davvero da soli.
E che dire delle pensioni di invalidità immaginaria? Anche qui le statistiche sono da brivido. Secondo un'indagine pubblicata questa estate dal sito linkiesta.it, ancora oggi, nonostante il fatto che i controlli siano stati enormemente inaspriti rispetto al passato, le pensioni per finti invalidi ci costano 8 miliardi di euro l'anno. In Sardegna, stando ai controlli Inps del 2010, il 53 per cento delle pensioni non avrebbe motivo di essere erogato. Al secondo posto c’è l’Umbria, con un tasso del 47 per cento. Seguono Campania (43 per cento) e Sicilia (42 per cento). Nell'articolo si legge che "si è creata una situazione paradossale: al diminuire delle richieste di riconoscimento dello stato invalidante, la spesa per le pensioni di invalidità continua a crescere. Nel 1998 sfiorava l’equivalente di 6 miliardi di euro, lo scorso anno è arrivata a 16 miliardi". E tutto ciò malgrado il fatto che, sempre nel 2010, sia stato cancellato il 23 per cento delle pensioni (invalidità civile o indennità di accompagnamento), in pratica una su quattro.
Le statistiche offrono vari spunti di riflessione. Uno su tutti, e cioé che è giusto adeguare l'età di pensionamento alla media europea (l'Italia andrà ben oltre), ma nessuno ci venga a dire che il disavanzo dei conti della previdenza dipende solo dall'età con cui mediamente le persone oneste vanno in pensione.
Ora la parola passa all'aula. E a tal proposito sarà interessante verificare come reagiranno i partiti a questa proposta del governo: di sicuro, non potranno continuare a nascondersi dietro i professori e i banchieri.