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Castigat ridendo mores

Il "popolino" e la Sinistra post-comunista: i perché di un'ostilità reciproca

Un modello culturale e comunicativo sempre più elitario e snob: così la Sinistra italiana ha perso il contatto con le masse. E adesso molti suoi elettori cominciano ad essere attratti dalla deriva dell'antipolitica

"Me ne vado dall'Italia". "Mi vergogno di essere italiano". "Gli italiani che votano Berlusconi sono dei minorati". "Non bisogna far votare il popolino". Quante volte abbiano sentito queste parole uscire dalla bocca di elettori di sinistra delusi dal risultato elettorale del proprio schieramento? Tantissime, e anche al termine dell'ultima tornata elettorale lo spartito non è cambiato.                                                      Queste ovviamente sono soltanto note di colore, che però rispecchiano una verità molto più profonda. Sono decenni, infatti, che l'impostazione logica della Sinistra italiana post-comunista, dal primo dirigente all'ultimo degli elettori, passando per ideologi, giornalisti schierati, uomini di cultura e guitti televisivi, è sempre la stessa: «Se la Sinistra non prevale alle urne è perché il popolo beota è facile preda degli imbonitori di folle e finché esisteranno questi populisti dello schermo, il "popolino", per noi di sinistra, è una causa persa». Per "popolino", generalmente (sottolineo "generalmente"), si intendono quegli elettori di cultura medio-bassa o bassissima, appartenenti ai più diversi strati sociali (di solito quelli più popolari, ma anche qui si corre il rischio di generalizzare) a cui ovviamente si aggiungono quei pochi che la Sinistra non la sopportano a pelle o per altri motivi legati a origini familiari-territoriali o a una particolare formazione culturale e professionale. Soffermiamoci però sul quel "popolazzo" che presenta le caratteristiche descritte sopra, dal quale quasi sempre va esclusa gran parte degli under 25, generalmente attratti dai miti della sinistra terzomondista.
Perché questa diffidenza e questa sfiducia invincibile proprio verso quelle masse incolte che una volta erano la ragion d'essere della Sinistra? La risposta potrebbe essere "perché votano Berlusconi le cui televisioni commerciali hanno operato un lavaggio del cervello ormai difficile da guarire", ma questa è una comoda scusa che nasconde una realtà diversa, che ha radici più profonde e le cui conseguenze si sarebbero manifestate con o senza Berlusconi.
L'ostilità, infatti, è reciproca e nasce dal fatto che questi concetti che si possono riassumere in "sfiducia nell'italiano medio e l'aria un po' schifata verso tutto ciò che non è di sinistra" la Sinistra li ha imposti nella scuola, nell'università, nel variegato mondo delle espressioni culturali e di opinione, ovvero in tutte quelle "casematte" che la Sinistra ha occupato quasi militarmente seguendo il suggerimento di Gramsci. Ecco perché poi coloro che non si riconoscono nella sinistra non parlano, rimangono nell' "anonimato" (ricordate i berlusconiani anonimi?), facendo impazzire, tra gli altri, anche gli stessi sondaggisti. Non hanno neanche sufficienti spazi per esprimere un'idea diversa e finiscono per auto-escludersi dal dibattito. Poi però arrivano le elezioni, e nel chiuso del seggio elettorale si vendicano con sadica soddisfazione, votando, talvolta a scatola chiusa, qualsiasi cosa che non sia di sinistra.
Queste le ragioni socio-culturali. E se poi ci addentriamo nelle cause più strettamente politico-ideologiche, non possiamo dimenticare che "abbiamo una banca", che Prada e De Benedetti, che la retorica di piazza sui lavoratori si è rivelata, appunto, solo retorica, che sulla tragedia della disoccupazione e della povertà la Sinistra sa rispondere solo con più Europa...già, quell'Euro che ha imprigionato il bilancio dello Stato in una camicia di forza portando il paese sulla soglia del baratro. Tutti temi che una vera Sinistra avrebbe dovuto cavalcare alla grande, e che invece ha regalato a Berlusconi, alla Lega, a Grillo.
Risultato? Dopo anni di delusioni elettorali e di mancanza di prospettive, ora anche gli elettori di sinistra cominciano ad essere attratti dall'antipolitica e dalla deriva populista e giacobina di Grillo, ammesso che di deriva si possa parlare. Sta di fatto che parecchi elettori, a sinistra, hanno preferito il Movimento Cinque Stelle, rovinando nuovamente, anche grazie al miracoloso recupero di Berlusconi, la festa ad un Pd che con il popolazzo televisivo fa sempre più a cazzotti, perché il suo modello culturale e comunicativo elitario si adatta bene ad un salottino chic, ma per prendere i voti bisogna entrare nei tinelli. 

Bersani rischia sul serio di doversi alleare con Grillo

Centrosinistra senza maggioranza assoluta al Senato. E le possibili "stampelle" Monti e Ingroia potrebbero essere travolte da M5S

Sulla vittoria di Pd-Sel non ci sono ormai dubbi. Ma il centrosinistra rischia seriamente di non avere i numeri per governare e di dover cercare intese improbabili.

Se infatti a livello nazionale vincerà sicuramente Bersani, che avrà così la maggioranza alla Camera, la partita vera si gioca però al Senato, dove il premio di maggioranza si assegna su base regionale e dove il centrosinistra, pur prevalendo in gran parte delle regioni, difficilmente andrà oltre i 145-46 seggi.  

Tutto dipenderà non solo dall’esito nelle regioni più in bilico tra quelle in cui viene eletto il maggior numero di senatori (Lombardia, Campania, Sicilia), ma anche da quanti senatori riuscirà ad avere l'unico potenziale alleato di Bersani, ovvero Monti, il quale in caso di exploit di Grillo rischia di scendere in diverse regioni sotto la soglia minima dell'8%, lo sbarramento fissato al Senato per chi si presenta con una lista unica (per le coalizioni invece è il 20%). Il professore deve necessariamente ottenere almeno una quindicina di seggi affinché Bersani possa disporre di una maggioranza decente per governare e non rimanere appeso al voto dei senatori a vita (che peraltro attualmente sono solo 4).

L'altra potenziale stampella del Pd potrebbe essere Ingroia, il quale però a livello nazionale sembra essere accreditato di un 4-5%, ed è assai improbabile che nelle due regioni in cui ha più seguito e dove potrebbe quindi conquistare dei seggi al Senato, ossia Sicilia e Campania, possa raggiungere l'8%.
 
Ovviamente si tratta di previsioni basate sui sondaggi pubblicati fino a due settimane fa, ma che tengono conto anche dell’ipotesi molto fondata che Grillo negli ultimi giorni possa aver stravolto il quadro. Persino Berlusconi lo considera il pericolo numero uno, anche perché sottrae voti all'area moderata attingendo tra gli elettori orientati verso il voto di protesta. E non ci sarebbe da meravigliarsi se Bersani, da martedì mattina, fosse costretto a trattare col comico o a "fare la pesca" tra i grillini: scommettiamo?

Debito pubblico, ovvero l'asservimento di una nazione

Ecco come funziona il sistema perverso dal quale dobbiamo uscire se vogliamo essere un paese libero

Oggi, per essere degli elettori consapevoli e informati, occorre conoscere l’economia e i suoi meccanismi meglio di quanto conosciamo eventualmente la Storia, il Diritto o l’Educazione civica.
Quando gli Italiani, al bar o nel tinello di casa, inveiscono contro la classe politica, sono esattamente consapevoli con quali dinamiche economiche essa deve misurarsi, ed entro quali limiti essa può muoversi?
Per esempio, sanno esattamente cos’è quella palla al piede che il nostro paese si porta dietro da anni e che nel dibattito politico viene chiamata “debito pubblico”? E sono a conoscenza del fatto che questo debito pubblico, e in particolare il modo in cui viene gestito e riprodotto, è un attentato alla nostra democrazia, oltre che una rapina al nostro lavoro e ai nostri risparmi?

Allora proviamo a capire come funziona il debito pubblico. Fino al 1981 lo Stato italiano gestiva il problema in modo semplice e abbastanza indolore: lo Stato ogni anno chiudeva il bilancio in deficit (chi segue il blog ha avuto sufficienti dimostrazioni che il deficit dello Stato, contrariamente a quanto ci raccontano, è un fattore di crescita e di ricchezza per l’economia reale), emetteva poi dei titoli e delle obbligazioni (Bot, Btp, Cct) che venivano acquistati sui mercati finanziari; lo Stato incassava così il denaro necessario per coprire quel disavanzo. Ovviamente, alla scadenza di quel titolo (ad esempio dieci anni), lo Stato doveva restituire al compratore i soldi precedentemente incassati più un interesse, che variava in base a due fattori: 1) il potere d’acquisto della moneta in cui erano denominati quei titoli (un compratore, per esempio, poteva aver acquistato i titoli con dollari e gli venivano restituiti i soldi in Lire, dunque una moneta con meno valore, e questo faceva salire l’interesse); 2) la capacità di quello Stato di restituire i soldi, ovvero la sua affidabilità.

Il lettore a questo punto si chiederà: ma in questo modo il debito si rinnova all’infinito e non si estingue mai! Anzi, considerando gli interessi, c’è il rischio che aumenti, anziché diminuire. In effetti sembrerebbe proprio così, ma a quel punto lo Stato interveniva. Faceva sì che fosse la Banca d’Italia (che all’epoca faceva parte del Ministero del Tesoro) a comprare una grossa parte di quei titoli, ovviamente da restituire con un interesse, ma erano comunque soldi che lo Stato, in pratica, restituiva a se stesso. Dove prendeva il denaro necessario la Banca d’Italia? Semplice, lo inventava dal nulla, emettendo nuova moneta. Il risultato era che solo una parte del disavanzo era in mano a investitori privati, ai quali lo Stato non pagava nemmeno interessi troppo alti per un motivo ovvio: i compratori non potevano chiedere interessi troppo elevati, perché lo Stato aveva la propria banca e la propria moneta con la quale poteva comprare potenzialmente tutti i titoli, perciò poteva benissimo rifiutarsi di vendere quando l’interesse richiesto era troppo alto, imponendo poi alla Banca d'Italia di acquistare i titoli rimasti (prestatore di ultima istanza). C’era insomma equilibrio tra domanda e offerta dal momento che lo Stato non era costretto a vendere a qualsiasi interesse.

Nel 1981, però, le cose cambiarono. In quell’anno furono infatti separati Ministero del Tesoro e Banca d’Italia. Quest’ultima divenne dunque indipendente e soprattutto non era più obbligata ad acquistare i titoli del debito pubblico. Lo Stato, intanto, continuò per tutti gli anni ‘80 a chiudere ogni anno il bilancio in deficit, con la differenza però che il debito era totalmente in mano ad acquirenti privati. Quindi, ad esempio, lo Stato in un anno vendeva titoli per un valore complessivo di 200 mila miliardi di lire, che però servivano a pagare il debito contratto in precedenza con altri acquirenti e a coprire il deficit fatto quell’anno; l’anno successivo, era costretto a vendere titoli per un valore, ad esempio, di 230 mila miliardi, perché bisognava coprire un nuovo deficit, pagare il debito precedentemente contratto con altri acquirenti e i relativi interessi, nel frattempo aumentati perché lo Stato, senza il supporto della Banca d’Italia, dipendeva interamente dal mercato, in un meccanismo perverso attraverso il quale lo Stato più pagava e più si indebitava, e più si indebitava e più doveva pagare.

All’inizio degli anni ’90, quando ormai si prospettava l’ingresso dell’Italia nella moneta unica europea, lo Stato cominciò gradualmente a modificare strutturalmente il proprio bilancio in modo da evitare almeno di produrre ogni anno nuovi deficit. Il risultato fu parzialmente raggiunto, anche attraverso la svendita di diverse aziende pubbliche (una cosa vergognosa che meriterebbe un capitolo a parte), e soprattutto attraverso l’adozione di manovre finanziarie “lacrime e sangue” che già all’epoca cominciarono a logorare ai fianchi aziende e famiglie. L’Europa pretendeva non tanto che il debito pubblico fosse a tutti i costi contenuto, ma che questo fosse in un rapporto sostenibile con il Prodotto interno lordo, ovvero con la ricchezza del paese. Gli accordi di Maastricht imponevano agli Stati che si accingevano ad entrare nell’eurozona un rapporto debito/pil al di sotto del 100% (ad esempio: 100 la ricchezza, meno di 100 il debito). L’Italia non centrò completamente l’obiettivo: il debito rimase sotto controllo e anzi diminuì leggermente, ma per raggiungere questo scopo lo Stato fu costretto a imporre sacrifici pesanti all’economia, con il risultato di deprimere il pil, tanto più che non poteva più fare dei deficit per ridargli slancio (come si era fatto fino agli anni ’80): glielo impediva l’Europa - secondo Maastricht gli Stati dell'eurozona non possono produrre dei deficit superiori al 3% del Pil - e oltretutto non avrebbe neanche potuto coprire eventuali disavanzi stampando moneta, perché la Banca d’Italia non acquistava più i titoli (ricordate?). I conti pubblici dell’Italia furono comunque approvati, anche perché sarebbe stato impossibile escludere dall’eurozona IL PRIMO paese europeo sia per produzione industriale (avete letto benissimo, IL PRIMO) che per risparmio privato.

Abbiamo quasi finito. Uno dei vantaggi dell’Euro (forse l’unico) doveva essere, in teoria, quello del contenimento dei tassi d’interesse, proprio perché l’Euro è una moneta forte, vale a dire con un forte potere d’acquisto (ricordate all’inizio?). Per l’Italia, dunque, sarebbe stato più facile onorare il proprio debito. Le cose purtroppo non stanno così, anzi la realtà si è rivelata completamente diversa. La ragione è da ricercare in ciò che è stato scritto prima: dal momento che lo Stato non ha una propria moneta emessa da una propria banca (la banca centrale), il suo debito è interamente in mano ai privati, il che vuol dire che lo Stato, quando ha bisogno di Euro, li può soltanto chiedere in prestito a interesse ai mercati finanziari, i quali ovviamente chiedono gli interessi che vogliono, tanto più che lo Stato, non avendo una propria moneta, non può rifiutarsi di vendere se ritiene gli interessi troppo alti. Facciamo un esempio pratico: mettiamo che nell’anno in corso lo Stato debba onorare debiti in titoli ed obbligazioni, venduti negli anni precedenti, per un valore complessivo di 800 miliardi di euro, interessi inclusi; quei soldi vengono ricavati dalla vendita di altri titoli ed obbligazioni che, alla loro scadenza, lo Stato dovrà liquidare agli acquirenti con tutti gli interessi, i quali come abbiamo visto continuano ad essere abbastanza elevati nonostante l’Euro. Il meccanismo perverso, come è evidente, si riproduce all’infinito, è un debito che si rinnova all’infinito senza estinguersi mai (sarebbe infatti impossibile per lo Stato trovare 800 miliardi di euro attraverso un aumento delle tasse o un taglio delle spese). Ma c’è di peggio: poiché il debito è tutto in mano a privati dai quali lo Stato dipende completamente, c’è il rischio che questi chiedano interessi via via sempre più alti quando giudicano l’Italia un paese a rischio e dunque, a loro avviso, incapace di restituire il denaro (default sui pagamenti). E si badi bene che l’interesse cresce non perché l’Italia non abbia i conti in ordine, ma perché non ha una propria moneta e quindi dipende interamente dal mercato.

Che l’Italia non abbia i conti in ordine è una balla colossale che ci propina la tv e anche gli stessi politici. Sono anni ormai che l’Italia non produce dei deficit significativi, anzi in alcuni anni il bilancio ha fatto registrare addirittura un avanzo primario (cioé escluse le spese per gli interessi corrisposti sul debito pubblico). Il che ci fa capire come tutto questo sforzo di onorare continuamente debiti non venga fatto per un disavanzo fra entrate e uscite che sarebbe ossigeno puro per l’economia del paese (come è stato dimostrato nei precedenti articoli), ma per pagare i vecchi debiti, i quali però come abbiamo visto non si estinguono mai, anzi tendono ad aumentare per via degli interessi. È esattamente in questo modo che il nostro debito è arrivato a toccare i 2 mila miliardi di euro.

L’errore più macroscopico sta nell’aver fatto gravare questo debito sulle spalle dell’economia reale, il che è ancora più assurdo se si considera che questo debito pubblico è, a conti fatti, un pericolo fasullo, dal momento che gran parte di esso è in mani italiane (banche e cittadini) che posseggono titoli di Stato (pensate ai "Buoni" postali), quindi vantano un credito nei confronti dello Stato. Questi italiani non sono indebitati, al contrario, hanno in tasca una piccola o grande ricchezza finanziaria. In sostanza, il debito pubblico è una mezza presa in giro, ma ciò nonostante si persevera ad agitarlo come uno spauracchio, come dimostra la recente decisione presa in ambito europeo di imporre agli Stati dell’eurozona la riduzione del debito. Secondo il cosiddetto “fiscal compact”, da quest’anno l’Italia dovrà produrre un avanzo tale da ridurre il rapporto debito/pil di 1/20 all'anno nei prossimi vent'anni, fino a farlo scendere dall'attuale 130 per cento al 60 stabilito dal Trattato di Maastricht. Una follia assoluta che provocherebbe un’autentica macelleria sociale, perché la nostra economia oggi avrebbe bisogno, semmai, che lo Stato facesse deficit di un centinaio di miliardi, dunque intorno al 6-7% del Pil, da coprire ovviamente con l’emissione di moneta e non affidandosi interamente al mercato finanziario. Va da sé che sarebbe quanto mai opportuno coprire nella stessa maniera anche gli interessi sul debito legato alla vendita dei titoli. Lo so che i cittadini hanno in mente l’inflazione galoppante degli anni ’70-’80, ma il paragone è improponibile perché all’epoca lo Stato spendeva in modo sconsiderato e si indebitava ogni anno, mentre qui si parla di deficit da produrre per qualche anno, il tempo necessario per dare ossigeno alle aziende e alle famiglie.

D’altra parte, quale alternativa abbiamo? Se continuiamo in questo modo la disoccupazione arriverà al 20% nel giro di quattro-cinque anni, praticamente lo sfacelo di una nazione. Gli Italiani si devono rendere conto che ormai sono letteralmente asserviti a banche, multinazionali, istituzioni finanziarie e speculatori a vario titolo da cui dipendiamo al 100 per cento, come ho cercato di spiegare in questo articolo. E a questo dominio noi ci dobbiamo ribellare, costi quello che costi, fosse anche un’uscita dall’eurozona. Non c’è più tempo da perdere.  

A Ballarò va in scena il dramma nazionale

Il più emblematico esempio di un politico senza coraggio ci ha fatto capire a quale disastro stiamo andando incontro

La performance di Berlusconi a Ballarò è un emblema senza eguali della situazione italiana.
Da una parte c’era un politico che promette una riduzione della pressione fiscale, peraltro insufficiente rispetto alle reali esigenze della nostra economia. Dall’altra un conduttore che giustamente lo incalzava chiedendogli, punto per punto, dove avrebbe trovato la copertura finanziaria per cancellare o diminuire determinate imposte. Il politico è andato in crisi, fornendo risposte poco convincenti sotto l’aspetto sia politico che aritmetico.

Quello che abbiamo visto ieri a Ballarò è un esempio illuminante della condizione in cui ci troviamo. Che pena! Il politico in questione sa perfettamente, come la maggior parte dei suoi colleghi, che non esiste nessuna copertura finanziaria. Né deve esistere. Questo è il punto cruciale: finché lo Stato continuerà ad avvitarsi su stesso, prendendo i soldi di qua per portali di là, togliendoli di qui per metterli di lì, l’economia non si riprenderà mai e poi mai, e sarà condannata senza appello ad un’agonia lenta ed irreversibile.

Se invece il politico avesse il coraggio di dire agli Italiani come stanno realmente le cose, avrebbe risposto al pur bravo giornalista che la condizione imprescindibile per abbattere la pressione fiscale sulle aziende e sui consumi è un ribaltamento totale dei trattati europei, che consenta alla banca centrale di coprire gli eventuali deficit degli Stati dell’eurozona con l’emissione di nuova moneta. In mancanza, però, di un accordo con i partner, l’Italia si dovrà muovere di conseguenza, abbandonando l’eurozona e mettendo in atto autonomamente le azioni di cui sopra. Tutto questo per dire che la vera copertura al necessario, improrogabile abbattimento della pressione fiscale, è il possesso di una moneta sovrana che si possa emettere, potenzialmente senza limiti, a discrezione di una banca centrale, superando dunque il sistema attuale, con il quale la nostra moneta si prende solo in prestito a interesse sui mercati finanziari. Questo sistema deleterio e per certi versi criminoso – avrebbe dovuto dire il politico in questione – va abolito o, se sarà necessario, abbandonato, entro il termine massimo di 18 mesi a partire da oggi. E a garanzia di questo impegno, la prima azione che farà il nuovo governo sarà l'immediata cancellazione della nuova norma inserita recentemente nella Costituzione che a partire da quest'anno imporrà allo Stato di gestire il bilancio in pareggio. Il governo intende scongiurare in tal modo quello che si profila come un vero crimine nel senso più autentico della parola. 

Berlusconi questo avrebbe dovuto rispondere, perché è questo che dovrebbe fare un governo che voglia rilanciare l'economia nazionale sul serio, e non solo a chiacchiere. E invece no, Berlusconi ha preferito fare una figura barbina davanti a tutti gli Italiani, anziché spiegare loro in quale trappola siamo andati a finire. E così ci ha presi in giro due volte in una botta sola.

PS Dall’altra parte, però, sarà il caso che gli elettori vadano oltre il cliché del “i soldi per ridurre le tasse ci sono, basta dimezzare gli stipendi ai politici e stanare tutti gli evasori”. Cari miei, non solo fate a cazzotti con la matematica, ma dovreste informarvi sul fatto che la spesa pubblica in Italia non è per niente alta, di sicuro non più alta di quella degli altri paesi. Il problema semmai è la qualità della spesa, il che significa che se si agisse secondo giustizia, si dovrebbero prendere i soldi risparmiati da tutti quelli che noi chiamiamo “sprechi”, e rispenderli tutti, fino all’ultimo centesimo, per migliorare servizi carenti, quando non addirittura impresentabili. Risultato uguale a zero. Quanto all’evasione, non solo questa esiste dappertutto, persino in Germania (160 miliardi), ma soprattutto non bisogna mai dimenticare che il settore privato, in Italia, vanta crediti verso Stato e Regioni per la mirabolante cifra di 50 miliardi di euro. Giusto per amor della matematica…