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Castigat ridendo mores

L'Europa di oggi vista da uno storico del 2064 (2a parte)

Durante "l'età dei grandi predatori dell'economia", intere generazioni di europei ben istruiti si fecero raggirare lasciandosi sottrarre tutto il patrimonio di diritti, di democrazia e di benessere costruito dai loro predecessori


Continua dal precedente articolo L'Europa di oggi vista da uno storico del 2064 (1a parte). La svolta fu data da Germania e Francia. L'unificazione tedesca (1989) preoccupò parecchio Parigi, che come contropartita per l'appoggio dato alla nascita di un grande Stato tedesco nel cuore dell'Europa, chiese una maggiore integrazione economica fra i paesi del Vecchio Continente con la creazione della moneta unica. In realtà, dietro questo progetto si nascondeva il piano delle élite neofeudali e neoliberiste, nonché delle industrie neomercantili francesi e tedesche, che videro l'occasione irripetibile di fare affari formidabili nel Sud Europa, e non solo. Infatti, dal momento che era naturale prevedere che degli Stati senza moneta sovrana sarebbero andati incontro a enormi difficoltà, Germania e Francia si sarebbero tutelate favorendo l'ingresso nell'eurozona dell'Italia, la cui industria - che stracciava tutti in Europa in fatto di esportazioni - senza la capacità di spesa e di debito dello Stato (e con una moneta più forte della Lira) avrebbe perso colpi come rivale commerciale, diventando al contempo un boccone prelibato e facile da divorare (leggi "acquistare a prezzi di saldo") per le industrie neomercantili francesi e tedesche.
La compiacenza suicida di una parte della classe dirigente italiana verso questo piano, fu un surplus inaspettato per i sostenitori dell'unione monetaria. In particolare, la sinistra Dc e l'ex Partito comunista videro in questo processo l'occasione per privare della capacità di spesa (che si traduceva spesso in clientelismo e corruzione) la classe politica al potere. Così finirono per buttare via il bambino con l'acqua sporca. In realtà, i vertici dell'ex Partito comunista cercarono e trovarono, nel sostegno al progetto neofeudale e neoliberista franco-tedesco di unione monetaria europea e castrazione della sovranità degli Stati, quella legittimazione che non avevano mai avuto fino ad allora, tanto più che ormai non erano considerati più come un pericolo, ora che il comunismo nell'Europa dell'Est era morto, e con esso era finita la "guerra fredda". Di lì a poco, le inchieste giudiziarie che colpirono i partiti di governo accrebbero ancora di più la credibilità, anche internazionale, degli eredi del Pci.

L'esperimento (cfr. 1a parte), a quel punto, poteva avere inizio. Gli Stati che entrarono nell'eurozona furono privati delle monete nazionali e quindi della loro principale prerogativa. L'Euro, infatti, non era creato da alcuno Stato, pertanto non veniva emesso da una banca centrale nazionale e introdotto attraverso la spesa pubblica direttamente nel circuito economico - da cui lo Stato ne preleva poi solo una parte, attraverso le tasse - ma veniva emesso da una banca centrale europea e immesso nei mercati finanziari, da cui gli Stati lo avrebbero preso in prestito per poi restituirlo con tutti gli interessi. Era naturale, a quel punto, che gli Stati sarebbero stati costretti a prelevare dal circuito economico almeno tanto denaro quanto ne versavano (pareggio di bilancio), e infatti le regole che gli Stati dell'eurozona si diedero erano molto restrittive sia per il deficit (debito annuale) che per il rapporto tra debito complessivo e pil. Gli stessi Trattati, oltretutto, limitavano fortemente la sovranità costituzionale e parlamentare delle nazioni a vantaggio di un governo sovranazionale ed elitario, di fatto non eletto dai popoli europei.
Per alcuni Stati come l'Italia la situazione sarebbe divenuta presto insostenibile, sia perché lo Stato si era indebitato moltissimo allo scopo di far crescere l'economia e di creare una rete di protezione per le fasce più deboli, sia perché questo processo era ormai strutturale, e quindi per cambiarlo era necessario tagliare le spese dello stato sociale e aumentare il prelievo fiscale su tutte le categorie, a cominciare da quelle più produttive. Dal 1992, pertanto, i governi italiani cominciarono ad operare in termini di avanzi di bilancio (determinando ovviamente effetti opposti rispetto a quelli prodotti dal debito fatto nei decenni precedenti) e infatti in Italia l'eurosistema fu attuato, di fatto, già dal 1992.
Nel 2002, quando entrò in corso l'Euro al posto delle vecchie monete nazionali, gli Stati ex sovrani si trovarono di colpo in preda alla drammatica necessità di prendere in prestito ogni singolo euro necessario non solo al pagamento del vecchio debito accumulato e dei relativi interessi, ma anche alla spesa ordinaria.
I popoli europei accettarono tutto ciò senza letteralmente rendersi conto di quanto stava accadendo. In primo luogo, le élite neofeudali e neoliberiste da almeno vent'anni avevano infiltrato loro uomini dappertutto: nelle università, nelle burocrazie, negli organi di informazione, nella classe politica. Attraverso un lavaggio del cervello martellante la gente era stata convinta che il debito di uno Stato (non a caso veniva chiamato con un termine quasi terroristico: "debito pubblico") era un male da estirpare senza esitazione in quanto pericolosissimo per l'esistenza dello Stato stesso, mentre il divieto di spendere a deficit era giustificato dal fantomatico rischio di iperinflazioni. Nel contempo, tutti i cittadini, non esclusi quelli più istruiti, erano stati abilmente indottrinati a modalità di analisi economica puramente "micro", sicché il dibattito politico era dominato esclusivamente dall'esigenza di spostare risorse da una categoria all'altra (del resto lo Stato ormai non poteva fare che questo), e la stessa polemica, sempre più feroce, contro i privilegi della classe politica e contro gli evasori fiscali, che era una sacrosanta battaglia di giustizia sociale, veniva ingenuamente confusa con il problema, ben più importante, di creare ricchezza nuova nel circuito economico, che uno Stato senza moneta non poteva più affrontare e men che meno risolvere. In secondo luogo, l'unione monetaria venne spacciata non per quello che era veramente, cioè un piano di trasferimento di sovranità e ricchezza dal basso verso l'alto, ma come un primo passo verso la nascita degli Stati uniti d'Europa, che naturalmente più o meno tutti i popoli europei accettarono con entusiasmo.
Gli scopi principali del cambiamento in atto erano i seguenti: a) costringere gli Stati democratici a cedere la loro sovranità popolare a una élite di tecnocrati; b) svuotarli della loro funzione primaria, cioè spendere a deficit per creare ricchezza e protezione sociale; c) in seguito alle difficoltà inevitabili che sarebbero derivate dal divieto di indebitarsi, costringerli a vendere i beni pubblici, compresi i servizi irrinunciabili (acqua, energia, telefonia, trasporti, persino carceri e cimiteri), le cosiddette "captive demand" (letteralmente, "richiesta prigioniera"); d) la crisi ancor più inevitabile dell'economia avrebbe creato una massa di disoccupati e sottoccupati disposta a lavorare a qualsiasi condizione contrattuale, mentre nelle economie del Sud Europa avrebbe determinato difficoltà tali per le aziende da costringerle a vendere le loro attività all'industria neomercantile franco-tedesca e alle grandi multinazionali; e) poiché gli Stati, per qualsiasi tipo di spesa, dovevano chiedere il denaro in prestito a interesse ai mercati finanziari, si aprivano favolose opportunità di profitto per banche d'affari e speculatori a vario titolo abili a "giocare" con gli interessi dei titoli di Stato, tenendo in pugno gli Stati democratici, i quali per forza di cose non avrebbero potuto attuare politiche che contrastassero con gli interessi dei mercati finanziari.

Tutto ciò si concretizzò puntualmente. In Italia, i cittadini cominciarono ad "assaporare" gli effetti dei Trattati europei già negli anni '90, soprattutto con un aumento continuo e asfissiante della tassazione. Con i governi di centrosinistra arrivarono anche le privatizzazioni, con la svendita di numerose industrie e servizi a partecipazione statale. Con l'avvento dell'Euro la situazione, per l'economia italiana, cominciò a peggiorare sempre più velocemente, fino allo shock provocato da un evento esterno, il "crac" finanziario statunitense. Il contagio che ne seguì fece emergere tutte le magagne dell'eurozona, il primo imprevisto per i neofeudali che l'avevano edificata. Quella che sembrava una crisi giunta da lontano diventò invece una recessione economica devastante e causata proprio dall'impianto dell'eurozona. L'Italia ne fu investita nel 2011, con un po' di ritardo rispetto ai partner, in seguito a un colossale gioco speculativo che fece crescere artificiosamente gli interessi sul suo debito pubblico. La paralisi politica ed economica che ne seguì giustificò la nascita di un governo tecnico eurofanatico, appoggiato da partiti ormai ostaggio delle minacce dei mercati finanziari, che in un solo anno diede un colpo ferale al Welfare State italiano, eroso poi ancora di più dai successivi governi di larghe intese. Il bilancio dello Stato italiano era ormai scritto dalla Commissione europea, mentre il prelievo fiscale raggiunse livelli al limite dell'accanimento.
Torniamo così al 2013-2014 (cfr. prima parte), quando il tessuto socio-economico italiano era ormai stato semi-smantellato, e anche tutta l'Europa settentrionale era in caduta libera. La disoccupazione era a livelli record dappertutto, le aziende chiudevano a ritmi impensabili anche nel Nord Italia e molte venivano acquisite da industrie tedesche. Ma il problema nuovo era diventata la deflazione (contrario di inflazione), con prezzi che continuavano a precipitare perché la gente cercava disperatamente di risparmiare per paura del domani. I successivi "step" furono dapprima il crac delle banche che si verificò nel 2015-2016, a cominciare dal sistema bancario che fino a qualche anno prima era stato il più solido dell'eurozona, quello italiano. Nello stesso tempo, il "fiscal compact" - il nuovo regime di bilancio in base al quale gli Stati dovevano produrre avanzi primari ancora più larghi di quelli fatti fino a quel momento - rese la situazione insostenibile, anche perché il piccolo risparmio era stato eroso fino a toccare il fondo del barile. Il premier italiano Matteo Renzi si rifiutò di stare al gioco di Fondo Monetario e Commissione Ue, ma questa volta alle sue dimissioni non seguì, come era successo altre volte, la nascita di un altro governo tecnico che mettesse in atto i dettami di Fmi e Ue (che con la giustificazione di sistemare i conti avevano già preparato il piano di svendita delle principali aziende pubbliche, ovvero Eni, Finmeccanica e Fincantieri). E neppure la solita, artificiosa impennata degli interessi sul debito pubblico valse a convincere la maggioranza del Parlamento a dare l'appoggio al governo tecnico di Mario Draghi, ex governatore della Banca centrale europea. Il vecchio presidente della Repubblica Napolitano fu così costretto a sciogliere le camere (gennaio 2017).
A quel punto, in Italia, Spagna e Francia, dopo decenni di assoluta apatia, la situazione sociale esplose. I successi elettorali di movimenti politici contrari alla moneta unica e all'impianto macroeconomico dell'eurozona portò a referendum che costrinsero anche gli altri paesi a prendere atto della situazione. Nella Conferenza di Copenaghen (2018) fu sciolta ufficialmente l'unione monetaria e si ritornò alle monete nazionali. Il cambiamento, però, non determinò subito gli effetti sperati, proprio perché il ritorno alla sovranità monetaria era avvenuto in modo traumatico (e dopo aver vinto fortissime resistenze nazionali organiche ai neofeudali, sia tra i partiti che tra gli organi di informazione). Nessuno Stato aveva avuto la lungimiranza di predisporre un piano preventivo di uscita dall'eurozona con un programma di spesa che garantisse subito piena occupazione, piena produzione e pieni servizi. L'Europa uscì definitivamente dalla recessione solo intorno alla metà degli anni '20.

Uno degli aspetti più paradossali di quella fase drammatica della storia europea fu il fatto che le generazioni mediamente più istruite che fossero esistite fino ad allora si lasciarono circuire in modo clamoroso, facendosi sottrarre l'enorme eredità, in teoria intoccabile e non trattabile, che i loro predecessori avevano lasciato: un patrimonio fatto di democrazia costituzionale e parlamentare avanzata; di diritti come l'attività lavorativa dipendente o in proprio degnamente retribuita e/o profittevole, e un orario di lavoro che lasciasse spazio alle altre attività fondamentali per la crescita personale; di benessere economico diffuso; di servizi essenziali che tutelassero le categorie più deboli della società. Questo patrimonio era stato costruito dalle classi dirigenti che avevano guidato l'Italia dopo la guerra, era stato edificato dagli italiani che avevano portato l'Italia fuori dalla guerra, al prezzo di duro lavoro e lotte sanguinose, oltre che di immane impegno intellettuale. E lo stesso discorso vale ovviamente anche per gli altri popoli europei. Le generazioni successive, molto più istruite e socialmente emancipate, si lasciarono depredare tutta questa eredità dal neofeudalesimo sociopatico, senza muovere un dito, anzi avallando inconsapevolmente la rapina. La causa era stata proprio l'inerzia sociale, l'indolenza, l'apatia, l'ottuso materialismo e l'individualismo che si erano impossessati di intere generazioni, abbindolate e defraudate proprio laddove i loro antenati semianalfabeti avevano cambiato un mondo in meglio. Quel che resta è una pagina di Storia costellata di errori da non ripetere mai più.