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Castigat ridendo mores

Nessuno lavorerà più di noi

Il nostro sistema pensionistico potrebbe diventare il più "severo" del mondo. Dalle baby-pensioni alle retribuzioni gonfiate, ecco tutti i regali fatti alle generazioni passate e che pagheranno quelle presenti e future

In pensione a 66 anni o con almeno 42 anni di contributi (41 per le donne). Questa la proposta-choc che il governo Monti sottoporrà alla discussione del Parlamento e che, se dovesse passare, farà degli Italiani il popolo con più anni di lavoro sul groppone. E non solo per quelli del futuro, visto che la riforma coinvolgerà decine di migliaia di lavoratori che erano ormai prossimi alla pensione. Per moltissimi di loro, peraltro, l'assegno, quando avranno maturato i requisiti, non sarà più calcolato sulla base del sistema retributivo o di quello misto retributivo-contributivo (come prevedeva la riforma Dini del 1995), bensì su quello contributivo integrale. Il danno e la beffa.
Ma perché così tanto accanimento su queste benedette pensioni? Perché, insomma, il sistema pensionistico italiano, così com'è strutturato attualmente, non è finanziariamente sostenibile? Nel modo più sintetico possibile, l'Attaccabrighe cercherà ora di rispondere a questa domanda che i cittadini comuni si pongono. Scopriremo che quello degli anni di lavoro o di vecchiaia è solo uno dei problemi della nostra previdenza, e neanche il più importante.
Sono quattro, nello specifico, i punti deboli che hanno fatto del sistema pensionistico italiano una macchina mangia-soldi: a) l'età pensionabile; b) il sistema di calcolo delle pensioni; c) le baby-pensioni; d) le finte pensioni di invalidità. Sul punto a) abbiamo già scritto nel precedente articolo, dimostrando che all'inizio degli anni '90 il divario tra l'Italia e i partner europei non era così abissale. Da noi, infatti, si andava in pensione con 57 anni di età o con 32 di contributi, che la riforma Dini del 1995 portò a 35, fissando anche un'età minima di 54 anni (portata poi a 57 nel 2001). Di certo si lavorava un po' meno rispetto agli altri, se si pensa che proprio a metà anni '90 la Germania riformava le pensioni di anzianità in questo modo: 63 anni di età e 35 di contributi, due requisiti entrambi obbligatori e non alternativi. Con la pensione di anzianità i tedeschi percepiscono inoltre qualcosa in meno rispetto a chi prosegue fino ai 65 anni per maturare il diritto alla pensione di vecchiaia. A noi sarebbe bastato copiare pari pari questo impianto, senza dubbio il più equilibrato che ci sia, per evitare la stangata che ci sarà rifilata dal governo Monti e che farà sembrare quasi morbido il sistema tedesco (loro, per esempio, porteranno le pensioni di vecchiaia a 67 anni solo nel 2029). Purtroppo abbiamo rifiutato per anni questo cambiamento (forte ma non traumatico), limitandoci a qualche riformina che rinviava all'infinito un serio aggiustamento dei conti. Così adesso dovremo sottoporci ad una terapia d'urto.
Quello dell'età pensionabile, tuttavia, non è il difetto principale del nostro sistema previdenziale. Per le casse degli istituti di previdenza è stato certamente più oneroso il modo in cui venivano calcolati gli assegni. Fino al 1995, infatti, questo calcolo veniva fatto sulla base del sistema cosiddetto "retributivo". In pratica, l'assegno corrispondeva grosso modo ad una sorta di media degli stipendi percepiti negli ultimi cinque anni di servizio. In apparenza giusto, ma di fatto insostenibile nel lungo periodo, non solo perché una parte delle pensioni vengono pagate con i contributi dei lavoratori attivi, ma soprattutto per via di un fenomeno assai diffuso nella nostra Italia, in particolare nel settore pubblico: quello delle retribuzioni gonfiate negli ultimi anni di servizio, durante i quali diverse categorie ottengono repentini scatti di carriera oppure hanno la possibilità di alzare la propria retribuzione con straordinari mai fatti in giovane età. Il tutto finalizzato, ovviamente, ad un aumento dell'assegno pensionistico. La riforma Dini (1995) stabilì che con il sistema retributivo sarebbero state pagate solo le pensioni di coloro che alla data del 31 dicembre 1995 avevano maturato almeno 18 anni di contributi; per gli altri, invece, sarebbe entrato in vigore un sistema misto: retributivo per gli anni di servizio antecedenti a quella data, "contributivo" (cioé basato sul rapporto tra quanto effettivamente versato all'istituto di previdenza sottoforma di contributi ed un coefficiente particolare) per gli anni successivi. Per chi cominciava a lavorare dal 1996, invece, valeva il contributivo integrale. Risulta evidente che sarebbe stato più opportuno far passare subito tutti al contributivo integrale: ciò avrebbe aiutato le casse degli istituti di previdenza e inoltre si sarebbe evitata a molti lavoratori la beffa di vedersi modificato il sistema di calcolo della pensione qualche anno prima di prenderla, come appunto accadrà in seguito alla riforma dell'attuale governo.
E veniamo ora ai punti c) e d), ovvero quelli relativi alle "pensioni-regalo". Per qualcuno il vero buco nero del sistema pensionistico italiano. Di sicuro fra le cause principali dello squilibrio fra entrate e uscite.
Per “baby-pensioni” si intendono quelle pensioni erogate dallo Stato italiano a lavoratori del settore pubblico che hanno versato i contributi pensionistici per pochi anni o che hanno avuto la possibilità di ritirarsi dal lavoro con età inferiore ai 40-50 anni. Le baby pensioni furono inaugurate nel 1973 dal governo Rumor con una legge che consentiva ai dipendenti pubblici di ritirarsi con pochi anni di anzianità: 14 anni, 6 mesi e 1 giorno di contributi per le donne sposate con figli, 20 anni per gli statali, 25 per i dipendenti degli enti locali. Sono state eliminate solo nel 1992. Secondo una recente inchiesta del Corriere della Sera i baby-pensionati sarebbero circa mezzo milione e costerebbero allo Stato, udite udite, circa 9 miliardi di euro l’anno. Ogni commento è superfluo, perché qui i numeri parlano davvero da soli.
E che dire delle pensioni di invalidità immaginaria? Anche qui le statistiche sono da brivido. Secondo un'indagine pubblicata questa estate dal sito linkiesta.it, ancora oggi, nonostante il fatto che i controlli siano stati enormemente inaspriti rispetto al passato, le pensioni per finti invalidi ci costano 8 miliardi di euro l'anno. In Sardegna, stando ai controlli Inps del 2010, il 53 per cento delle pensioni non avrebbe motivo di essere erogato. Al secondo posto c’è l’Umbria, con un tasso del 47 per cento. Seguono Campania (43 per cento) e Sicilia (42 per cento). Nell'articolo si legge che "si è creata una situazione paradossale: al diminuire delle richieste di riconoscimento dello stato invalidante, la spesa per le pensioni di invalidità continua a crescere. Nel 1998 sfiorava l’equivalente di 6 miliardi di euro, lo scorso anno è arrivata a 16 miliardi". E tutto ciò malgrado il fatto che, sempre nel 2010, sia stato cancellato il 23 per cento delle pensioni (invalidità civile o indennità di accompagnamento), in pratica una su quattro.
Le statistiche offrono vari spunti di riflessione. Uno su tutti, e cioé che è giusto adeguare l'età di pensionamento alla media europea (l'Italia andrà ben oltre), ma nessuno ci venga a dire che il disavanzo dei conti della previdenza dipende solo dall'età con cui mediamente le persone oneste vanno in pensione.
Ora la parola passa all'aula. E a tal proposito sarà interessante verificare come reagiranno i partiti a questa proposta del governo: di sicuro, non potranno continuare a nascondersi dietro i professori e i banchieri.

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