Quando Roberto Zamboni, vent'anni fa, indagando nei documenti degli archivi di Stato alla ricerca dello zio scomparso, iniziò a rinvenire i loro nomi con i cimiteri in cui erano stati inumati, rimosse il coperchio su una storia sepolta da decenni di oblio: la storia di oltre 700 mila "IMI", gli internati militari italiani, 50 mila dei quali morti nei campi di concentramento nazisti senza che i familiari avessero almeno una lapide su cui piangerli. Eppure i loro corpi avevano ricevuto una degna sepoltura in numerosi cimiteri militari della Germania, dell'Austria e della Polonia. Ma perché, allora, a genitori, mogli, fratelli non fu detto nulla?
Quando l'8 settembre del 1943 fu reso noto l'armistizio che il maresciallo Badoglio aveva firmato con gli Alleati cinque giorni prima, in Italia scoppiò il caos, soprattutto nelle file delle nostre truppe. Mentre il re e Badoglio si davano alla fuga rifugiandosi nel Sud ormai conquistato dagli anglo-americani (che erano sbarcati in Sicilia il 10 luglio provocando il crollo del regime fascista e la caduta di Mussolini, avvenuta il 25 dello stesso mese), i soldati italiani furono lasciati letteralmente allo sbando, senza ordini, senza essere chiamati alle armi contro l'invasore tedesco che nel frattempo aveva preso in mano la situazione nel Centro-Nord. Coloro che non riuscirono a fuggire al Sud rimasero alla mercé dei nazisti e furono messi di fronte ad una scelta: combattere per la Repubblica di Salò e per i tedeschi o rifiutarsi per poi essere deportati e imprigionati.
Le cifre ufficiali parlano di oltre 1 milione di militari italiani disarmati e catturati, 400 mila dei quali nelle isole greche. Solo 94 mila accettarono di combattere per i tedeschi, mentre furono 700 mila quelli che in seguito al rifiuto furono deportati in vari campi di lavoro forzato della Germania, della Polonia e dell'Austria, dove, in quanto "traditori", furono arruolati fittiziamente come lavoratori civili, in modo che non fossero loro riconosciute le forme di tutela previste dalla Convenzione di Ginevra nonché le cure della Croce Rossa. Dopo gli ebrei e le altre minoranze etniche che il nazismo perseguitò per motivi ideologici, gli Imi furono quelli che subirono il trattamento peggiore. Gli aneddoti raccontati dai superstiti fanno venire la pelle d'oca, così come alcuni episodi avvenuti nelle ex colonie (si pensi a Cefalonia o alle navi italiane affondate dai tedeschi nell'Egeo e il cui equipaggio finì in pasto agli squali).
Sorprende non poco il fatto che il sacrificio di questi soldati sia stato assai trascurato, per non dire dimenticato, dalla Storia che si studia sui libri di scuola. Già, perché con il loro rifiuto essi si immolarono letteralmente per il bene dell'Italia. Avrebbero potuto dire "sì", e con 700 mila soldati in più nelle file dei nazifascisti sarebbe stato molto più difficile, per non dire impossibile, per gli Alleati, liberare la penisola. Avrebbero potuto dire "sì" per salvare la pelle, e invece dissero "no". Ciò nonostante, nessun merito è stato loro riconosciuto per decenni, anzi, i superstiti hanno vissuto quasi con vergogna la loro condizione di sopravvissuti, perseguitati addirittura dal sospetto di essere dei disertori. Vessati e umiliati dai nazisti, dai fascisti (che si accanivano in modo particolare con questi ex commilitoni) e poi anche nel dopoguerra da molti connazionali. Loro che si erano arruolati per combattere con scarse motivazioni in una guerra in cui non credevano, al fianco di un alleato che detestavano, per poi sentir dire che i soldati italiani non sono dei veri soldati, sono dei fifoni, delle banderuole. Il danno e la beffa.
Ma è un altro l'aspetto più sconcertante di questa storia. Il destino più atroce toccò infatti agli Imi che nei lager persero la vita, circa 50 mila. Di questi padri, mariti, fratelli si perse non solo il ricordo pubblico, ma anche i familiari non ebbero più loro notizie, non seppero dove e come erano morti, se e dove erano stati seppelliti. Con una legge del 1951 lo Stato vietò il rimpatrio delle salme degli Imi caduti nei campi di concentramento, così come di quelle dei civili. Ma il peggio è che i familiari non ricevettero alcuna comunicazione circa il luogo della loro sepoltura. Gran parte di loro risultava come "disperso". Solo di recente, un artigiano veronese, Roberto Zamboni, è riuscito a fare luce sulla vicenda. Indagando, nel 1994, sul destino di un suo zio, scoprì che era sepolto da cinquant'anni in un cimitero militare della Germania. Da quel momento diede inizio ad un lungo e tenace lavoro di "scavo" negli archivi di Stato, riuscendo a individuare dove si trovavano le tombe di quasi 20 mila militari, con il luogo e la data del decesso. Negli ultimi anni alcuni di loro sono stati anche riportati a casa dai figli o dai nipoti, mentre la missione di Zamboni continua anche grazie al sito da lui aperto col nome alquanto significativo di "dimenticati di Stato".
Lui stesso ammette di non riuscire a capire i veri motivi di questo "occultamento" operato dallo Stato. Personalmente, invece, ritengo che la situazione sia abbastanza chiara. Sarebbe stato difficile per i governi post-bellici giustificare la morte nei campi di concentramento di questi soldati che di fatto furono abbandonati da coloro che presero in mano le redini della nazione dopo la caduta di Mussolini, ovvero la monarchia, Badoglio, gli stessi movimenti politici nascenti che avrebbero dato vita ai partiti repubblicani. Arruolati dal regime per combattere la "guerra parallela", dopo la caduta del duce e l'arrivo degli anglo-americani questi soldati furono lasciati in balìa del nemico per una precisa scelta strategica (a mio avviso codarda e sbagliata) di concentrare le forze in quel terzo di paese occupato dagli Alleati. Non che le stragi di partigiani e di civili siano state meno dolorose, ma almeno sono state ricordate e giustamente tramandate. E resta il fatto che i nuovi responsabili di governo (o almeno quelli che erano dalla parte giusta) lasciarono un esercito allo sbando. I familiari l'avrebbero giudicata come una colpa grave.
C'è poi un'ulteriore chiave di lettura per questa scelta dello Stato. Questi soldati erano vittime della follia nazista e quasi tutte le loro tombe si trovavano proprio in Germania. Perciò lo Stato considerò rischioso, dal punto di vista politico, comunicare alle famiglie ciò che era successo ai loro uomini partiti per la guerra e mai tornati. Era il momento della pacificazione, era il momento di dimenticare. Con buona pace di chi avrebbe voluto almeno una lapide su cui piangere il figlio morto per la patria.
POST SCRIPTUM Pubblico qui una lettera scritta dal nipote di un Imi, dal titolo "8 settembre 1943: l'armistizio, agli italiani e in particolare ai soldati, è convenuto veramente?". Sono parole toccanti che fanno riflettere. (Per leggerla basta cliccare sull'immagine e poi ingrandirla. Nel caso non si riuscisse a ingrandirla online, si consiglia di scaricarla sul proprio pc.)
Quando l'8 settembre del 1943 fu reso noto l'armistizio che il maresciallo Badoglio aveva firmato con gli Alleati cinque giorni prima, in Italia scoppiò il caos, soprattutto nelle file delle nostre truppe. Mentre il re e Badoglio si davano alla fuga rifugiandosi nel Sud ormai conquistato dagli anglo-americani (che erano sbarcati in Sicilia il 10 luglio provocando il crollo del regime fascista e la caduta di Mussolini, avvenuta il 25 dello stesso mese), i soldati italiani furono lasciati letteralmente allo sbando, senza ordini, senza essere chiamati alle armi contro l'invasore tedesco che nel frattempo aveva preso in mano la situazione nel Centro-Nord. Coloro che non riuscirono a fuggire al Sud rimasero alla mercé dei nazisti e furono messi di fronte ad una scelta: combattere per la Repubblica di Salò e per i tedeschi o rifiutarsi per poi essere deportati e imprigionati.
Le cifre ufficiali parlano di oltre 1 milione di militari italiani disarmati e catturati, 400 mila dei quali nelle isole greche. Solo 94 mila accettarono di combattere per i tedeschi, mentre furono 700 mila quelli che in seguito al rifiuto furono deportati in vari campi di lavoro forzato della Germania, della Polonia e dell'Austria, dove, in quanto "traditori", furono arruolati fittiziamente come lavoratori civili, in modo che non fossero loro riconosciute le forme di tutela previste dalla Convenzione di Ginevra nonché le cure della Croce Rossa. Dopo gli ebrei e le altre minoranze etniche che il nazismo perseguitò per motivi ideologici, gli Imi furono quelli che subirono il trattamento peggiore. Gli aneddoti raccontati dai superstiti fanno venire la pelle d'oca, così come alcuni episodi avvenuti nelle ex colonie (si pensi a Cefalonia o alle navi italiane affondate dai tedeschi nell'Egeo e il cui equipaggio finì in pasto agli squali).
Sorprende non poco il fatto che il sacrificio di questi soldati sia stato assai trascurato, per non dire dimenticato, dalla Storia che si studia sui libri di scuola. Già, perché con il loro rifiuto essi si immolarono letteralmente per il bene dell'Italia. Avrebbero potuto dire "sì", e con 700 mila soldati in più nelle file dei nazifascisti sarebbe stato molto più difficile, per non dire impossibile, per gli Alleati, liberare la penisola. Avrebbero potuto dire "sì" per salvare la pelle, e invece dissero "no". Ciò nonostante, nessun merito è stato loro riconosciuto per decenni, anzi, i superstiti hanno vissuto quasi con vergogna la loro condizione di sopravvissuti, perseguitati addirittura dal sospetto di essere dei disertori. Vessati e umiliati dai nazisti, dai fascisti (che si accanivano in modo particolare con questi ex commilitoni) e poi anche nel dopoguerra da molti connazionali. Loro che si erano arruolati per combattere con scarse motivazioni in una guerra in cui non credevano, al fianco di un alleato che detestavano, per poi sentir dire che i soldati italiani non sono dei veri soldati, sono dei fifoni, delle banderuole. Il danno e la beffa.
Ma è un altro l'aspetto più sconcertante di questa storia. Il destino più atroce toccò infatti agli Imi che nei lager persero la vita, circa 50 mila. Di questi padri, mariti, fratelli si perse non solo il ricordo pubblico, ma anche i familiari non ebbero più loro notizie, non seppero dove e come erano morti, se e dove erano stati seppelliti. Con una legge del 1951 lo Stato vietò il rimpatrio delle salme degli Imi caduti nei campi di concentramento, così come di quelle dei civili. Ma il peggio è che i familiari non ricevettero alcuna comunicazione circa il luogo della loro sepoltura. Gran parte di loro risultava come "disperso". Solo di recente, un artigiano veronese, Roberto Zamboni, è riuscito a fare luce sulla vicenda. Indagando, nel 1994, sul destino di un suo zio, scoprì che era sepolto da cinquant'anni in un cimitero militare della Germania. Da quel momento diede inizio ad un lungo e tenace lavoro di "scavo" negli archivi di Stato, riuscendo a individuare dove si trovavano le tombe di quasi 20 mila militari, con il luogo e la data del decesso. Negli ultimi anni alcuni di loro sono stati anche riportati a casa dai figli o dai nipoti, mentre la missione di Zamboni continua anche grazie al sito da lui aperto col nome alquanto significativo di "dimenticati di Stato".
Lui stesso ammette di non riuscire a capire i veri motivi di questo "occultamento" operato dallo Stato. Personalmente, invece, ritengo che la situazione sia abbastanza chiara. Sarebbe stato difficile per i governi post-bellici giustificare la morte nei campi di concentramento di questi soldati che di fatto furono abbandonati da coloro che presero in mano le redini della nazione dopo la caduta di Mussolini, ovvero la monarchia, Badoglio, gli stessi movimenti politici nascenti che avrebbero dato vita ai partiti repubblicani. Arruolati dal regime per combattere la "guerra parallela", dopo la caduta del duce e l'arrivo degli anglo-americani questi soldati furono lasciati in balìa del nemico per una precisa scelta strategica (a mio avviso codarda e sbagliata) di concentrare le forze in quel terzo di paese occupato dagli Alleati. Non che le stragi di partigiani e di civili siano state meno dolorose, ma almeno sono state ricordate e giustamente tramandate. E resta il fatto che i nuovi responsabili di governo (o almeno quelli che erano dalla parte giusta) lasciarono un esercito allo sbando. I familiari l'avrebbero giudicata come una colpa grave.
C'è poi un'ulteriore chiave di lettura per questa scelta dello Stato. Questi soldati erano vittime della follia nazista e quasi tutte le loro tombe si trovavano proprio in Germania. Perciò lo Stato considerò rischioso, dal punto di vista politico, comunicare alle famiglie ciò che era successo ai loro uomini partiti per la guerra e mai tornati. Era il momento della pacificazione, era il momento di dimenticare. Con buona pace di chi avrebbe voluto almeno una lapide su cui piangere il figlio morto per la patria.
POST SCRIPTUM Pubblico qui una lettera scritta dal nipote di un Imi, dal titolo "8 settembre 1943: l'armistizio, agli italiani e in particolare ai soldati, è convenuto veramente?". Sono parole toccanti che fanno riflettere. (Per leggerla basta cliccare sull'immagine e poi ingrandirla. Nel caso non si riuscisse a ingrandirla online, si consiglia di scaricarla sul proprio pc.)
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