Solo il debito dello Stato può creare ricchezza
nuova nell’economia, ma il potere ci ha raccontato la menzogna che questo
compito possono svolgerlo le esportazioni: una truffa colossale, perché il
risultato sono stipendi da fame e precarietà
Continua dai due
precedenti articoli: 1) Il debito pubblico non è un problema, anzi: è la nostra ricchezza; 2) Ecco perché gli evasori e la “casta” non sottraggono nemmeno un euro alla ricchezza nazionale.
Chi ha letto i due articoli passati si sarà fatto
sicuramente una domanda: ma se il sistema-Euro è così dannoso per i paesi che
vi sono entrati, perché in Germania non ha avuto gli stessi effetti negativi?
Il dubbio è legittimo e a suo tempo è venuto anche a chi
scrive. Cominciamo col dire che la Germania, passando dal Marco all’Euro, si è
ritrovata con una moneta leggermente svalutata rispetto a prima, e questo ha
reso un po’ più convenienti i prodotti tedeschi. Ma questa maggiore
competitività non avrebbe portato grandi frutti alla Germania se nell’Eurozona
non fosse entrata anche l’Italia, ovvero quello che alla fine dello scorso
millennio era il primo paese in Europa per produzione industriale, nonché il
principale esportatore del continente. Con la nostra Lira di poco valore, i
nostri prodotti erano quelli che offrivano di gran lunga il miglior rapporto
qualità-prezzo. Da questo punto di vista, l’Italia in Europa non aveva rivali.
Entrando nella moneta unica, però, il prodotto italiano
ha subito un crollo di competitività proprio a causa della nuova valuta, e ad
approfittarne non potevano essere che i tedeschi, i quali hanno ben presto
sbaragliato quello che era il loro principale competitor commerciale. Non è un
caso se l’Europa è ancora oggi il principale mercato di sbocco della Germania,
ormai padrona assoluta dei commerci nel vecchio continente, dopo che a cavallo
tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio i governi teutonici
hanno favorito gli investimenti delle aziende in ricerca e innovazione. Dove
siano state reperite queste risorse è ancora oggetto di discussione e sospetti.
Che i governi tedeschi abbiano occultato dal debito pubblico il denaro prestato
alle imprese dalla cassa depositi e prestiti tedesca (banca a capitale
interamente pubblico) è cosa ormai acclarata oltre ogni ragionevole dubbio. Se
poi si dimostrassero vere le voci sul presunto occultamento di una grossa
porzione delle spese assistenziali e previdenziali, saremmo di fronte ad una
truffa clamorosa, con un debito reale della Germania che raggiungerebbe cifre
astronomiche (già oggi è il primo in Europa, ma con un rapporto “sostenibile”
con il prodotto interno lordo).
Al di là dei dubbi sul debito tedesco, che qui interessano
relativamente, si può concludere che la Germania ha fatto quello che desiderano
gli inventori di questo sistema economico antidemocratico e disumano: con uno
Stato paralizzato nelle sue possibilità di spesa e di indebitamento, l’attivo
dell’economia deve essere ricavato dall’import-export. È necessario esportare
più di quanto si importa, affinché la bilancia commerciale sia in attivo e così
anche l’economia nel suo complesso. Qui però casca l’asino, anzi, cascano i
lavoratori, rovinosamente, inclusi quelli tedeschi.
Ricapitolando. 1) Divieto agli Stati di indebitarsi (se
non entro un limite insignificante); 2) opinione pubblica indottrinata a
modalità di analisi economica esclusivamente “micro”; 3) culto delle
esportazioni. Questi tre principi si tengono insieme. Entriamo nel cuore della
tragedia.
Dei primi due punti si è già parlato in maniera
abbastanza esaustiva nei due precedenti articoli. Veniamo al terzo, e qui
occorre capire perché le esportazioni non sono affatto il balsamo benefico per
ogni economia come i grandi media ci raccontano ogni giorno (e persino i
piccoli imprenditori abboccano, poveracci loro). La ragione è semplice da
spiegare. La scelta di puntare tutto sulle esportazioni provoca due effetti
deleteri: 1) un crollo dei salari e delle garanzie per i lavoratori; 2) una
inevitabile contrazione dei consumi interni. La prima conseguenza è dovuta al
fatto che la corsa all’export richiede una sempre maggiore competitività del
prodotto, in una gara all’ultimo sangue a chi offre il miglior rapporto
qualità-prezzo, e soprattutto il prezzo più conveniente. Cosa possono fare le
imprese per abbassare i prezzi e competere con paesi dove il costo del lavoro è
in alcuni casi 1/3 di quello dei paesi ricchi? Semplice: risparmiano sul costo
della manodopera, danno stipendi da fame ai dipendenti e li licenziano quando
vogliono. Risultato: lavoratori sottopagati, flessibilità ultras, condizioni
contrattuali in alcuni casi indecorose (si pensi a certi contratti “a
progetto”). Inevitabilmente i consumi interni crollano, ma questo, si faccia
attenzione, non è un problema nell’ottica di questo sistema, al contrario.
Veniamo così alla seconda conseguenza. Il calo della domanda interna, in
effetti, è un dramma per i lavoratori e per le imprese che vivono di consumi
interni, non certo per le imprese che puntano sulle esportazioni. Per queste
ultime, infatti, è anzi necessario che i consumatori comprino meno, perché
altrimenti, se la produzione venisse tutta assorbita dal mercato interno, non
ci sarebbe più nulla da esportare. La contrazione dei consumi interni diventa
quindi una condizione essenziale affinché la corsa all’export possa attuarsi. Risulta
evidente, in definitiva, che ciò che abbiamo indicato come due effetti (riduzione
dei salari e calo dei consumi interni) sono in realtà due condizioni
propedeutiche alla politica delle esportazioni.
Ce n’è abbastanza per affermare che il culto delle
vendite all’estero è l’ennesima truffa dei colossi industriali e del capitale
di rapina, a cui gli Stati dell’eurozona obbediscono come cagnolini
ammaestrati. Non occorre inoltre soffermarsi più di tanto sul fatto che è
matematicamente impossibile che tutti i paesi del mondo possano avere la
bilancia commerciale in attivo, il che è evidente già in un’area economica di
per sé ristretta come l’Europa. John Maynard Keynes aveva addirittura previsto
un sistema di riequilibrio delle bilance commerciali nel caso in cui alcuni
paesi avessero esportato troppo ed altri importato troppo.
Tutto questo non significa che le esportazioni siano un
male in senso assoluto: diciamo che la loro utilità si riduce al mero
bilanciamento delle necessarie importazioni (si pensi alle tante materie prime
che l’Italia è costretta ad acquistare dall’estero).
Persino in Germania gli effetti di questo sistema si
fanno sentire pesantemente, tanto che dal 2002 ad oggi il salario medio di un
lavoratore tedesco si è ridotto del 10%. L’opinione pubblica, in Germania, è
tutt’altro che soddisfatta, ma guardandosi intorno nel continente, e vedendo
solo macerie, i tedeschi si sentono di gran lunga i più fortunati. Forse
cominciano anche a comprendere le ragioni di questa “fortuna”, ecco perché non
si muove una foglia. Da notare che mentre in Europa si punta ormai a comprimere
la domanda interna (lo dichiarò pubblicamente il sottosegretario all’Economia
del governo Monti), negli Usa, invece, ancora oggi l’80 per cento della
produzione viene assorbito dalla spesa degli americani.
Risulta ancora più chiaro, in conclusione, che l’unico
“attivo” che l’economia nazionale può incassare è quello che corrisponde fino
all’ultimo centesimo al “passivo” che registra lo Stato nel momento in cui si
indebita per stimolare produzione, occupazione e consumi interni. Neppure gli
investimenti dall’estero (per esempio quando un’azienda straniera apre uno
stabilimento in Italia) possono assolvere a questo compito. Sono senza dubbio
un fattore positivo, ma anche qui c’è il trucco, come sempre a discapito dei
lavoratori. In primo luogo, gli investimenti stranieri sono parte integrante
del modello devastante che abbiamo descritto finora, poiché si tratta di una
corsa a cercare all’estero le condizioni migliori per fare impresa. In questo
caso parliamo di quella famigerata “delocalizzazione” che ha seminato angoscia
in intere famiglie, se vista dalla prospettiva di chi assiste alla chiusura
della propria fabbrica che trasloca all’estero. Pensiamo a tanti lavoratori
italiani licenziati con un calcio nel sedere. In secondo luogo, gli
investimenti esteri si sono dimostrati inaffidabili, perché le aspettative che
suscitano quando arrivano sono esattamente equivalenti alla disperazione che
provocano quando scappano all’improvviso. Non si possono riporre in loro tutte
le speranze di un’economia, tanto più che il repentino volatilizzarsi delle
imprese straniere è spesso dettato da ragioni politiche che vanno oltre
l’andamento del mercato. È il cosiddetto “capital flight” (letteralmente,
“capitale che vola”), ovvero la pratica – come la descrive Paolo Barnard, massimo
divulgatore in Italia della Mosler
Economics”, nel suo “Il più grande crimine”, estendendo il concetto anche
all’ambito del mercato borsistico dei capitali – di “coloro che con il ricatto
del portare o sottrarre investimenti colossali tengono in ostaggio oggi
qualsiasi paese, movimentando nel mondo qualcosa come 625 mila miliardi di
dollari di scommesse finanziarie”. E rispondendo a quanti sostengono che i
capitali stranieri arrivano e rimangono solo se trovano le condizioni migliori,
va detto che queste non sono soltanto la semplificazione burocratica e il
buon funzionamento della giustizia: sono anche le agevolazioni fiscali e
un’economia in salute, il che si può ottenere, come dimostrato fin qui, solo
con il debito dello Stato, l’unico che possa creare ricchezza nel contenitore
di aziende-cittadini.
L’attuale modello di capitalismo sta provocando uno
spietato sgretolamento del tessuto economico di numerose potenze industriali,
prima fra tutte la nostra Italia. Quando capiremo che il più importante scopo
da perseguire è la ricostruzione di un’economia finalizzata al benessere comune
e non solo alla crescita dei profitti di rentier e grandi multinazionali?
Continua
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